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Geopolitica: Claudio Pirillo – Sulla guerra cognitiva e altre bagattelle per più massacri – Parte I: Del buon uso delle informazioni…manipolate

Sopra: Gian Lorenzo Bernini, La Verità (particolare), 1652. Galleria Borghese, Roma.



 
Claudio Pirillo: Sulla guerra cognitiva e altre bagattelle per più massacri  - Parte I: Del buon uso delle informazioni…manipolate.
 

La guerra cognitiva si incentra sul concetto di information dominanceInternet ha completamente trasformato la cornice dei conflitti, dando grande rilevanza agli esperti di guerra in rete (netwar). Dal 1997 tale concetto è una priorità geopolitica. Per gli analisti militari americani, nelle guerre prossime venture prevarrà chi racconterà la storia miglioreGiuseppe Gagliano, Presidente del Cestudec [1] (Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis), sostiene tale ipotesi.[2]

Dai conflitti del Golfo Persico al Kossovo, l’intelligence americana ha saputo organizzare in modo schiacciante la guerra cognitiva per difendere gli interessi geoeconomici statunitensi, dimostrando una palese inferiorità dei paesi europei. Esempi di guerra cognitiva, cioè di destabilizzazione di un paese con la diffusione di false notizie e falsi documenti possono essere rinvenuti in tutte le epoche. Dai pogrom organizzati dalla polizia zarista a fine Ottocento (che si serviva della inversione [3] delle parole) fino ai giorni nostri (I e II Guerra mondiale, Muro di Berlino, caduta del Comunismo, Torri Gemelle, primavera araba, guerre in medioriente), non vi è stata intelligence che non abbia fatto ricorso alla guerra cognitiva, per creare scompiglio informativo e panico o “sedazione” informativa, o comunque per sovvertire gli Stati da colpire e condurre le cose verso i propri interessi di bandiera.[4]

Il caso di multinazionali che decidono di fermare i propri concorrenti per la realizzazione di un disegno in paesi di economia emergenti (per esempio, con tale definizione, si indicavano fino a poco tempo fa i paesi del c.d. BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – paesi tutt’altro che peregrini sul piano della rilevanza politica e militare).

Gagliano descrive quel che avviene: 

  • «Individuazione dei punti deboli del concorrente nella zona in questione (le debolezze possono essere di varia natura: le tangenti pagate alle autorità, l’inquinamento ambientale, il mancato rispetto dei diritti umanitari e così via). Tutte le informazioni devono essere verificabili e non devono dar luogo a interpretazioni fallaci.
  • Scelta della procedura d’attacco attraverso l’informazione: se si prende in considerazione l’aspetto cognitivo, si può immaginare il seguente scenario. Il consigliere addetto a questa funzione fa versare dei fondi a una fondazione privata sostenuta dalla ditta. All’interno di questa fondazione, un uomo di fiducia utilizzerà questo denaro indirizzandolo verso una ONG che si è posta come obiettivo la protezione dell’ambiente. La manovra consiste poi nel sensibilizzare la ONG riguardo a questo dossier, comunicandole indirettamente delle informazioni verificabili (quindi non manipolate) sulle malefatte della multinazionale concorrente.
  • La ONG diffonde attraverso il suo sito internet messaggi negativi contro il progetto del concorrente. La catena cognitiva è così creata.

In seguito si tratta di saperla attivare consapevolmente per destabilizzare il bersaglio.

  • Il punto di forza dell’attacco cognitivo è non ingannare o disinformare, ma alimentare una polemica pertinente appurata per mezzo di fatti oggettivi. Il livello della cospirazione si limita all’installazione e all’attivazione della catena informativa. Ma più la polemica è “fondata”, meno è facile dimostrare la cospirazione, anche solo teoricamente».

Un esempio di quanto precede è stata la destabilizzazione “militare” dello Stato argentino quando le agenzie di rating ne vollero decretare l’insolvibilità economica. Il Potere assoluto dell’economicismo è sostenuto militarmente ed agisce manu militari ovunque vi siano opposizioni alla logica del Mercato Unico: è doloroso affermare la certezza che, oggi, le forze armate – ovunque – sono, quando deciso ed ove occorra, gli inconsapevoli strumenti della plutocrazia mondialista. Ad esse, è affidato lo sgradito compito di spianare la strada alla realizzazione degli interessi economici delle Multinazionali.

D’altra parte, se parliamo di guerra cognitiva il motivo è che di guerra si tratta.[5] La guerra cognitiva è condotta da chiunque abbia la possibilità di gestire l’informazione ovvero disponga di larghe fette internetiche. Non sempre ad avere la peggio sono i soggetti reputati più deboli. Come è accaduto per il caso dell’AMI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti)[6] nel 1998.

Su tale accordo, i media mondiali tennero un discreto riserbo, fornendo poche notizie e presentandolo come uno dei tanti trattati commerciali. La realtà era ben altra. Dalla fine del II conflitto mondiale, sono state stabilite numerose regolamentazioni commerciali a livello internazionale, fra cui il GATT (General Agreement on Trade and Tariffs) poi trasformatosi in OMC (Organizzazione Mondiale per il Commercio) e dal 1995 anche per lo scambio di servizi (GATS); manca finora una regolamentazione multinazionale per gli “investimenti diretti internazionali” (IDE).

Essi vengono disciplinati con un’ampia serie di trattati bilaterali, circa seicento, in modo poco trasparente e in parte contraddittorio. Dall’inizio degli anni Novanta è diventata sempre più evidente negli Stati Industrializzati, e soprattutto nell’Unione Europea, l’esigenza di un quadro giuridico multilaterale sugli investimenti, che ne promuovesse lo scambio, nella convinzione che una più ampia circolazione di capitali sul piano mondiale sarebbe foriera di maggiore sviluppo per tutti. Mentre inizialmente l’Europa si è sforzata di affrontare tali questioni nel quadro del GATT e poi dell’OMC, gli Stati Uniti hanno da subito privilegiato l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) quale luogo privilegiato per ospitare i negoziati tra gli Stati industrializzati. In questo modo, gli Stati Uniti hanno puntato a conseguire più rapidamente un accordo globale tra i ricchi del pianeta (i ventinove paesi membri dell’OCSE) da lasciare aperto all’adesione degli stati non membri [7].

Il MAI si basava sulla supremazia giuridica del Trattato anche di fronte alle legislazioni nazionali sulla stregua di precedenti accordi fra Canada, USA e Messico. In virtù di tale accordo (NAFTA) sul libero scambio, la Ethyl Corporation, multinazionale statunitense, fece causa al Governo canadese perché una legge di quello Stato l’aveva danneggiata, in quanto si dichiarava illegale un additivo chimico prodotto dalla Ethyl stessa.

Pur essendo conclamata la dannosità dell’additivo, il superiore valore giuridico affermato nel NAFTA costrinse il Governo canadese a ritirare il provvedimento emanato e a pagare alla Ethyl Corporation dieci milioni di dollari di indennizzo. Tre erano gli assunti di base del MAI:                             

  1. Eliminazione, da parte degli Stati, di qualunque trattamento preferenziale di tipo “nazionale”: gli investitori esteri e quelli interni sarebbero stati posti sullo stesso piano giuridico senza privilegi per un’impresa nazionale quale beneficiaria di un investimento;
  2. Impegno consequenziale dei governi di non frapporre ostacoli alla circolazione dei capitali stranieri sul territorio nazionale;
  3. Alle imprese multinazionali sarebbe stato riconosciuto il diritto di portare in Tribunale quegli Stati che avrebbero valutato “discriminanti” nei loro confronti e sanzionando, in tal modo, la fine della possibilità per le istituzioni nazionali di decidere in casa propria.

Si trattava, in definitiva, di un golpe vero e proprio col quale le Multinazionali avrebbero affondato i popoli. I movimenti e le associazioni culturali di ogni estrazione ideologica, cominciarono una vera e propria campagna bellica-informativa, che spezzò la silenziosa trama che voleva imporre il MAI. Attraverso la rete, mailing-list, forum e manifestazioni, furono diffusi documenti redatti dall’OCSE o sui contenuti “politici” del MAI, sino a quando alcuni importanti Paesi, come la Francia del governo Jospin, si ritirarono dal Trattato abbandonando il progetto che prevedeva, fra l’altro, la costituzione di un Tribunale Europeo che doveva giudicare circa il rispetto del MAI [8].

Quel che è cacciato dalla porta, rientra a volte dalla finestra: i trattati di Schengen costituiscono la versione meno deflagrante del MAI e si muovono nell’esatta direzione voluta dalla nota Commissione Trilaterale. Inoltre, i principi della guerra cognitiva si applicano con tutta evidenza ad un altro capolavoro del finanzcapitalismo globale: la creazione del fenomeno migratorio di massa.

Uno dei capolavori della guerra cognitiva è stata la guerra condotta contro l’Iraq, subito dopo la tragedia delle Torri Gemelle. Si è proceduto al solito modo, cioè la diffusione di nomi e fatti verificabili e creando poi un movimento di opinione mondiale (evitando, però, di sottolineare che Saddam Hussein era stato “creato” dagli stessi Americani e che i medesimi se ne erano serviti per fargli combattere la guerra contro l’Iran khomeinista del 1977-1979), quindi hanno provveduto a diffondere falsi documenti e fotografie che mostravano gli (inesistenti) depositi di armi di distruzione di massa. I media di tutto il sistema del Patto Atlantico fecero da cassa da risonanza. Il resto si conosce. Allo stesso modo si è tentato di abbattere la Siria di Bashshār al-Assad e, quando è giunto il momento, il cosiddetto Occidente non si è fatto scrupolo di organizzare e finanziare gruppi terroristi (Fronte al-Nuṣra, Isis ecc.). Paesi che con la Siria avevano – fino a quel momento – avuto ottimi rapporti, cedendo alle volontà degli Stati Uniti, hanno sostenuto una infernale campagna mediatica contro la Siria, rompendo ogni rapporto diplomatico e commerciale [9]. Per quanto riguarda la Siria, la guerra cognitiva è stata condotta sul possesso e l’uso (mai fatto) delle armi chimiche da parte dell’esercito nazionale arabo-siriano: propaganda (falsa) e disinformazione sono state largamente usate nei confronti della Siria.

Si deve, perché la guerra cognitiva produca gli effetti voluti, fare ricorso ad un processo di falsificazione di conoscenze già acquisite. Naturalmente, perché gli effetti della disinformazione si producano, occorre possedere le tecnologie dell’informazione e governarle [10]. Molto spesso la guerra cognitiva è affidata proprio alle ONG. Per quanto riguarda la Siria si deve annotare anche la presenza dei Caschi Bianchi. 

Tale organizzazione è molto chiacchierata in quanto collegata alla cosiddetta Difesa Civile siriana, sospettata di essere una costola del Fronte al-Nuṣra. I finanziamenti dei Caschi Bianchi provengono da USA (Usaid), Arabia Saudita, Germania, Giappone ecc.

Charles Prats è un magistrato francese, particolarmente attivo nella lotta alle frodi finanziarie. Ha partecipato alla redazione de La guerre cognitive [11]di Christian Harboulot e Didier Lucas fissando le tecniche di sovversione.

Come riporta Mirko Mussetti, tali regole:

«[...] Codificate da Charles Prats e incentrate sull’indignazione pubblica, assomigliano molto alle tecniche di guerriglia a cui abbiamo assistito negli ultimi anni in Siria:

1. instillare dubbio sui valori come sugli individui (Assad descritto come “macellaio” o “animale”), inculcando il timore dell’avversario e ridicolizzandolo per isolarlo e distruggerlo;

2. rafforzare le contestazioni che screditano l’autorità;

3. neutralizzare i gruppi che possono venire in soccorso dell’ordine stabilito, agendo sull’opinione pubblica. 

L’azione sovversiva gioca sullo scontro manicheistico di valori: positivi contro negativi; Buoni (democrazie occidentali) contro Cattivi (il ‘regime’ di Assad e suoi alleati). La sovversione tende a presentare la violenza come giusta, in quanto legittima difesa (“ribelli moderati”), e aggrava le tensioni per distruggere il sistema. Secondo Prats, l’ideale è quello di far avvenire la disintegrazione per mano degli stessi difensori dell’ordine costituzionale. La sovversione richiede il controllo delle masse, puntando sull’atteggiamento gregario dell’individuo medio, il quale pensa per immagini (e stereotipi) ed è facilmente suggestionabile».

In Italia, non è stato suggestionato – dalla falsificazione delle informazioni – il solo popolo minuto, bensì anche gran parte degli intellettuali e quasi l’intera classe politica accodatesi al racconto di moda ben gradito dai governi occidentali. Come nel caso del conflitto Nato-Serbia, l’Italia non si è preoccupata minimamente di discutere gli interessi italiani, né allora in relazione alla Serbia, né in relazione alla Siria. 

La “somma menzogna”, a proposito di guerra cognitiva nel caso Siria, è stata la dichiarazione dal governo francese formalizzata in un documento del 14 aprile 2018, col quale si affermava che le immagini spontaneamente pubblicate sui social network, circa le (pretese) armi chimiche siriane erano da considerarsi veritiere in quanto pubblicate da entità (non precisate) considerate affidabili.

Ancora una volta, Mussetti è penetrante nella sua analisi della guerra economica/cognitiva condotta contro la Siria:

«Qualora il vero scopo occidentale della guerra siriana fosse l’imposizione del gasdotto Qatar – Turchia da parte di alcune potenze occidentali (…), anziché l’implementazione della pipeline Iran-Iraq-Siria sostenuta dalla Russia (…), la classe dirigente italiana starebbe dimostrando di essere completamente inadeguata alle sfide geoeconomiche nel nuovo contesto globale. Il tracciato del gasdotto dovrebbe quantomeno mettere in allarme il governo italiano. Il gas prodotto da Doha, i cui legami con Roma sono strettissimi, transiterebbe attraverso la regione più instabile del mondo per giungere poi nella penisola anatolica, concorrente diretta dell’Italia nel proporsi come hub del gas europeo. Appoggiare anche solo ideologicamente una guerra dai costi umani e politici elevatissimi per ritrovarsi poi a pagare laute royalties ad Ankara (…) – la quale godrebbe di un’ulteriore leva di ricatto verso l’Europa – è quantomeno sintomo di scarsa lungimiranza».

È impietosa l’analisi del Mussetti, il quale rileva che una realizzazione del gasdotto Iran-Iraq-Siria: «permetterebbe all’Italia di allacciarvisi direttamente attraverso tubature sottomarine nel Mediterraneo, bypassando l’inaffidabile alleato anatolico».

Insomma, manca all’Italia una capacità concettuale e realizzativa nel senso di un “nazionalismo economico” che, al contrario, è molto forte in Francia ed in Germania, dirette antagoniste sul piano economico-politico del nostro Paese.

Il problema è che i politici italiani non hanno alcuna preparazione geopolitica o geoeconomica. 

Sproloquiano sovente di diritti umani e, nel caso siriano, hanno blaterato ancora più di liceità delle armi convenzionali – rispetto a quelle chimiche (come se le convenzionali facessero meno morti) – da usare per distruggere pretesi depositi di armi chimiche senza nemmeno preoccuparsi di eventuale contaminazione dovuta alla loro eliminazione.

Dopo otto anni, la Siria è – però – ancora un paese libero dalla presenza terroristica (sia del terrorismo finanziario, sia di quello “militare”).

Fine prima parte.

Continua…

 

Note

*Le note dell’autore, Dott. Prof. Claudio Pirillo, sono seguite dalla sigla [N.d.A.]; le note dell’editor, Rossella Ragusa, sono seguite dalla sigla [N.d.C.]; ulteriori note di altri collaboratori sono seguite dal nome e cognome (o le iniziali) del collaboratore stesso.

[1]  Fondato nel 2011, Il Cestudec è un global network dedicato ai temi della sicurezza, della difesa, dell’intelligence e della storia militare. L’associazione è di base in provincia di Como. Per maggiori informazioni: http://cestudec.com. [N.d.C.]

[2] A tal proposito Giuseppe Gagliano scrive: «[...] information dominance. Definita come lo spiegamento nello spazio che garantisce i mezzi di meta-controllo, di prevenzione, di prelazione e di coercizione, questa dottrina avrebbe la vocazione di plasmare il mondo attraverso l’armonizzazione delle pratiche e delle norme internazionali sul modello americano. Come giustamente sottolineano Philippe Baumard e Christian Harbulot, questa dottrina mira a mettere sotto controllo gli organi di decisioni strategiche del mondo». Vedi: Giuseppe Gagliano, Aspetti della guerra cognitiva, in www.notiziegeopolitiche.net, 6 marzo 2014. [N.d.A.]

[3] L’inversione è una prassi propagandistica e persecutoria ampiamente documentata e, per certi versi, bifrontale. Nell’ambito del conflitto israelo-palestinese ad esempio, Israele, mediante il concetto di Holocaust Inversion “denuncia” una nuova forma di antisemitismo contemporaneo che opererebbe attraverso due principali meccanismi: a) L’inversione della realtà: secondo la quale gli israeliani verrebbero rappresentati come “nuovi nazisti” e i palestinesi come “nuovi ebrei”; b) L’inversione morale: secondo la quale l’Olocausto verrebbe strumentalizzato a guisa di “lezione morale” contro gli ebrei stessi, facendoli passare da “vittime” a “carnefici”.  In tal senso, attraverso la trasformazione retorica Israele-Nazismo, si assiste anche all’emergere di una nuova iconografia antisemita connotata da un apparato simbolico specifico: la trasformazione della Stella di David in Svastica, i soldati israeliani rappresentati come SS, i riferimenti a una “soluzione finale palestinese” e così via. Un aspetto particolarmente problematico di questa tendenza è la manipolazione di simboli sacri. La Stella di David – o meglio esagramma (antico simbolo ermetico non ascrivibile al giudaismo ma mutuato dal sionismo e non riconosciuto dagli ebrei ultra-ortodossi) rappresenta l’unione tra il mondo celeste e quello terrestre, simboleggiando l’armonia tra il basso e l’alto attraverso l’intersezione di due triangoli di cui l’Uomo vero è il centro (Grande Triade). Lo Swastica è un simbolo primordiale presente in numerose tradizioni, dal buddhismo all’induismo. Come notato da René Guénon, esso rappresentava in origine il “segno del Polo”, simbolo dell’asse del mondo e del movimento ciclico attorno a un centro immobile, incarnando il principio dell’azione non-agente. La strumentalizzazione politica di questi simboli sacri in un contesto di conflitto rappresenta non solo un’operazione storicamente scorretta ma anche una profonda violazione del loro significato esoterico originario. Similmente, il paragone tra i soldati israeliani e le SS rappresenta una semplificazione storica problematica meritevole di un’analisi approfondita. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) operano come forza militare di uno stato sovrano moderno, sotto un quadro giuridico internazionale e con proprie regole d’ingaggio. Le SS operarono come forza militare del Terzo Reich con un proprio codice d’onore e struttura organizzativa. Laddove quest’ultima fu dichiarata organizzazione criminale dal Tribunale di Norimberga per il ruolo avuto nella persecuzione ebraica, l’IDF, malgrado le atrocità in corso ai danni dei civili palestinesi, non ha ricevuto (ad oggi) la medesima condanna. Va piuttosto rilevato come in entrambe gli schieramenti non siano mancati esempi di opposizione e denuncia delle atrocità: basti citare, nel caso delle SS, la figura di Georg Konrad Morgen (1909-1982) e, nel caso dell’IDF, l’organizzazione Shovrim Shtika. Tali parallelismi non sono solo provocatori, ma costituiscono una deliberata distorsione storica particolarmente pericolosa: da un lato, l’Holocaust Inversion rischia di alimentare un nuovo antisemitismo attraverso una generalizzazione pericolosa che identifica indiscriminatamente tutti gli ebrei come oppressori. Questa narrativa non solo banalizza la specificità storica della persecuzione ebraica, ma ripropone pericolosamente lo stesso meccanismo di demonizzazione collettiva che caratterizzò l’antisemitismo storico. Dall’altro lato, l’utilizzo dell’accusa di antisemitismo da parte di Israele come “scudo” contro ogni critica rischia di delegittimare e sminuire anche le genuine preoccupazioni umanitarie riguardo al massacro dei palestinesi in corso. Va infatti rilevato che per quanto riguarda la situazione umanitaria attuale, al netto di una situazione sanitaria di alta criticità, secondo i dati dell’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) il conflitto ha causato oltre 46.000 vittime palestinesi di cui circa il 70% donne e bambini. Più di 1.9 milioni di persone sono state sfollate, rappresentando circa il 75% della popolazione totale di Gaza. Più di 11.000 bambini sono stati uccisi mentre altri sono rimasti feriti o traumatizzati. Per approfondimenti sull’Holocaust Inversion vedi: Manfred Gerstenfeld, Holocaust Inversion: The Portraying of Israel and Jews as Nazis, Jerusalem Center for Public Affairs, n°55, 2007; sui pogrom zaristi vedi: Alessandro Cifariello, L’ombra del “kahal”. Immaginario antisemita nella Russia dell’Ottocento, Viella, Roma 2013; sulla Stella di David si segnala l’importante saggio di Gershom Sholem, La Stella di David – Storia di un simbolo, Giuntina, Firenze 2013. (Nota: Diego Cinquegrana).

[4] Giuseppe Gagliano, Aspetti della guerra cognitiva, Op. cit. [N.d.A.]

[5] «Un altro esempio gioverà a comprendere meglio la dinamica della guerra cognitiva. Degli esperti della Banca Mondiale devono esprimere un parere decisivo sul finanziamento di una parte del progetto. La forza attaccante può allora far entrare in gioco un’equipe particolare che avrà come obiettivo indebolire la personalità dei rappresentanti della Banca Mondiale. L’attualità ci ha permesso di ricostruire quello che potrebbe essere il susseguirsi degli avvenimenti. Il primo attacco è costituito da qualche volantino abbandonato nei dintorni della sede della banca indicante il nome delle persone responsabili del caso. Si tratta di farle uscire dall’anonimato e dare alla loro decisione un carattere pubblico suscettibile di essere poi denunciato davanti all’opinione pubblica. Un secondo attacco può sopraggiungere a seguito di una micro-manifestazione (una persona si aggrappa alla facciata dello stabile e si fa filmare da una troupe televisiva). Il carattere agit-prop di questa rivendicazione maschera il significato nascostodell’operazione che è di iscrivere nel tempo la denuncia dei potenziali colpevoli nella decisione di un caso che potrebbe nuocere all’ambiente». Giuseppe Gagliano, Ibidem, pp. 2-3. [N.d.A.]

[6] Multilateral Agreement on Investment[N.d.A.]

[7] «Questi negoziati sono stati condotti senza tener conto delle diverse organizzazioni della società civile (sindacati, ONG, organizzazioni di difesa dell’ambiente, dei diritti dell’uomo ecc.) e il progetto di accordo non prende in considerazione gli accordi internazionali (in particolare la “Dichiarazione di Rio”, la “Agenda 21″, il “codice di condotta delle Nazioni Unite per la protezione dei consumatori”, il “Habitat Global Plan of Action”, il “UNCTAD Set of Multilateral Agreed Principles for the Control of Restrictive Business Practices”)». MAI: accordo multilaterale sugli investimenti, fonte online: http://ccinzia.tripod.com/campaigns/mai.html. [N.d.A.]

[8] Si riporta di seguito l’intervento integrale di Lori M. Wallach, direttore di Public Citizen’s Global Watch, tenuto alla conferenza-dibattito su “Mondializzazione e democrazia: i pericoli dell’Accordo multilaterale sugli investimenti” presso l’Assemblea nazionale, il 4 dicembre 1997:«Immaginate un trattato commerciale che autorizzi multinazionali e investitori di capitali a portare davanti al giudice i governi per ottenerne danni e interessi a compenso di ogni scelta politica o atto pubblico che comporti una diminuzione dei loro profitti. Non è la trama di un romanzo di fantascienza sul futuro totalitario del capitalismo. È solo una delle clausole di un trattato internazionale che sta per essere firmato, ma che è assai poco conosciuto: l’Accordo multilaterale sugli investimenti (AMI). Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), Renato Ruggiero, ha descritto assai bene la natura dell’accordo: “Scriviamo la Costituzione di un’economia mondiale unificata”. Pochi sanno che il negoziato per l’ AMI è iniziato a Parigi nel 1995, in seno all’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico (OCSE). I 29 paesi membri, tra cui tutti i più ricchi del mondo, vogliono trovare una linea comune prima di presentare ai paesi in via di sviluppo un trattato da prendere o lasciare. Obiettivo dell’accordo è estendere il programma di deregolamentazione sistematica dell’OMC ad alcuni settori vitali non ancora coinvolti:

Localizzazione e condizioni degli investimenti nell’industria e nei servizi, transazioni su divise e altri strumenti finanziari, come azioni e obbligazioni, proprietà fondiaria e risorse naturali… 

Persino negli ultimi decenni, quando il mondo è stato sconvolto da una vera e propria esplosione di movimenti di capitali, l’attenzione dell’opinione pubblica, della stampa e del potere politico si è rivolta più all’attività commerciale che agli investimenti. Multinazionali e grandi imprese finanziarie sono invece molto attente a questo settore. Con pazienza e aggressività hanno fatto in modo che le regole generali in materia rispondessero ai propri interessi particolari e garantissero l’estensione e il consolidamento del loro potere sugli stati. Legislatori e cittadini sono stati tenuti all’oscuro di queste manovre, anche se il testo dell’OCSE (190 pagine) è ormai pronto al 90%. Il Congresso degli Stati uniti ha preso coscienza dei negoziati dell’AMI, portati avanti da tre anni dai dipartimenti di stato e del tesoro, solo nell’aprile 1997 grazie all’azione dei movimenti di cittadini americani contro le procedure di negoziato dette fast track. Il muro di silenzio si estende oltre i confini degli Stati Uniti. Nel dicembre 1997, in Francia, Jack Lang, presidente della commissione esteri dell’Assemblea nazionale e quindi direttamente coinvolto, dichiarava: “Ignoriamo chi negozi cosa a nome di chi”. Le autorità americane hanno negato l’esistenza del testo fino al giorno in cui una coalizione internazionale di movimenti di cittadini se ne è procurata una copia. A dispetto del dipartimento di stato e dell’ OCSE, il testo è ora accessibile su Internet. Come la maggior parte dei trattati internazionali, l’Ami stabilisce una serie di diritti e doveri, ma qui i diritti sono riservati alle imprese e agli investitori internazionali, mentre i governi assumono tutti i doveri. Inoltre, novità senza precedenti, una volta entrati nell’ AMI, gli stati sono irrevocabilmente legati per venti anni. Una disposizione infatti proibisce loro di uscire prima di cinque anni. Dopo di che il trattato diventa obbligatorio per i quindici anni successivi! Il capitolo chiave del trattato s’intitola “Diritti degli investitori di capitali”. Sancisce il diritto assoluto d’investire in acquisto di terreni, risorse naturali, servizi di telecomunicazioni o altri, divise nelle condizioni di deregolamentazione previste dal trattato, cioè senza alcun vincolo. I governi sono obbligati a garantire il “pieno godimento” degli investimenti. Molte clausole prevedono l’indennizzo per investitori e imprese in caso di interventi governativi che rischino di ridurre la possibilità di trarre profitto dagli investimenti. In particolare se questi interventi avessero “un effetto equivalente” a “un esproprio, anche indiretto”. Così, secondo l’accordo, “la perdita di un’opportunità di profitto su un investimento costituirebbe un pregiudizio sufficiente a dare all’investitore diritto all’indennizzo”. Le direttive dell’AMI relative a “espropri e indennizzi” sono le più pericolose. Ogni impresa o investitore straniero ha il diritto di contestare pressoché tutte le scelte politiche o gli atti governativi dalle misure fiscali alle disposizioni relative all’ambiente, dalla legislazione del lavoro alle regole di protezione del consumatore come altrettante minacce potenziali sui profitti. Così, mentre tutti gli stati tagliano i programmi sociali, viene chiesto loro di approvare un programma mondiale di assistenza alle società transnazionali. Premonitore è il caso della Ethyl Corporation. L’impresa, con sede negli Stati Uniti, fa riferimento alle clausole dell’Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA), molto meno favorevoli di quelle dell’AMI, per pretendere 251 milioni di dollari (circa 4,5 miliardi di lire) dal governo canadese. Nell’aprile 1997, Ottawa aveva infatti proibito un additivo per la benzina chiamato Mmt, una neurotossina sospetta che danneggia i dispositivi antinquinamento delle auto. Ethyl, produttore unico, ha intentato causa al governo canadese, sostenendo che proibire l’Mmt equivaleva a un esproprio ai danni della compagnia. Per quanto possa sembrare incredibile, la causa si farà. Se Ethyl dovesse vincere, i contribuenti canadesi dovranno versare 251 milioni di dollari all’impresa privata. Non è difficile immaginare che un simile meccanismo finirà per paralizzare ogni azione governativa tesa a proteggere l’ambiente, preservare le risorse naturali, garantire la sicurezza e la giustizia delle condizioni di lavoro o orientare gli investimenti al servizio dell’interesse collettivo. Altro diritto all’indennizzo a favore degli investitori: la “protezione contro le sommosse”. I governi sono responsabili, nei riguardi degli investitori, delle “sommosse civili”, per non parlare di “rivoluzioni, stati d’emergenza o altre situazioni simili”. Ciò significa che hanno l’obbligo di garantire gli investimenti esteri contro ogni azione di disturbo, come movimenti di protesta, boicottaggi o scioperi. Quanto basta per incoraggiare i governi, con la copertura dell’AMI, a limitare le libertà sociali. In compenso, l’AMI non prevede obblighi, né responsabilità per gli investitori. I governi non possono trattare in modo diverso gli investitori esteri e quelli nazionali. E, secondo il progetto di trattato, è l’impatto di una politica, non le intenzioni né il senso letterale dei testi di legge, che va considerato. Così, le leggi di cui si potrà dimostrare che hanno un effetto discriminatorio non intenzionale sul capitale estero, andranno abrogate. Leggi che fissano limiti allo sviluppo delle industrie estrattive, minerarie o forestali, potranno essere denunciate per il loro effetto discriminatorio nei confronti di investitori esteri interessati ad accedere a queste risorse rispetto agli investitori nazionali già inseriti nel settore. Potrebbero essere attaccate anche le politiche di aiuto alle piccole imprese o di trattamento preferenziale verso alcune categorie d’investimenti o d’investitori, come i programmi dell’Unione europea a favore delle regioni a sviluppo arretrato. Stesso rischio per i programmi di ridistribuzione di terre ai contadini nei paesi in via di sviluppo. Per essere ammessi nel NAFTA, che è servito da modello all’AMI, il Messico ha dovuto sopprimere le disposizioni della sua Costituzione relative alla riforma agraria istituita dopo la rivoluzione. Bilancio dei primi quattro anni di applicazione del trattato: distruzione massiccia dei piccoli possedimenti agricoli, mentre le multinazionali dell’agroalimentare mettevano le mani su immense aziende. Le regole del trattamento nazionale riguardano anche le privatizzazioni. Così, se una municipalità francese decide di privatizzare il servizio dell’acqua come molte hanno già fatto, chiunque a livello mondiale deve avere le stesse condizioni di accesso di un investitore francese. Anche se si tratta di una società a economia mista sotto controllo democratico. A quando la privatizzazione dell’istruzione o dei servizi sanitari? L’AMI proibisce anche tutte le misure adottate da molti paesi per orientare gli investimenti in base all’interesse pubblico come, per esempio, l’impiego di mano d’opera locale o di alcune categorie di persone, come gli handicappati. Potranno essere contestate molte leggi e normative sull’ambiente. Cadranno sotto i colpi dell’AMI le disposizioni di parecchi stati degli Usa secondo le quali gli imballaggi in vetro o in plastica devono contenere una certa percentuale di prodotti riciclati. La minaccia pesa sulla legislazione di alcuni paesi del Sud, che per promuovere lo sviluppo economico nazionale esigono per esempio dagli investitori stranieri un partenariato con le imprese locali o l’assunzione e la formazione di quadri nazionali. L’accordo scolpisce nel marmo anche la clausola della nazione più favorita, che richiede un trattamento uguale tra tutti gli investitori stranieri. In futuro, ai governi sarà proibito discriminare gli investitori stranieri in base alle scelte attuate dai loro governi in materia di diritti umani, diritto al lavoro o altro. È proibito anche il trattamento preferenziale accordato dall’Unione europea alle ex colonie africane, dei Caraibi e del Pacifico con gli accordi di Lomé. Se l’AMI fosse stata in vigore negli anni Ottanta Nelson Mandela sarebbe ancora in prigione, perché l’accordo proibisce il boicottaggio degli investimenti o la loro limitazione, così come è stato attuato nei confronti di Pretoria durante l’apartheid, salvo che per motivi di “massima sicurezza”. Infine, l’AMI trasformerà l’esercizio stesso del potere a livello mondiale sottomettendo alle direttive delle multinazionali moltissime funzioni oggi di competenza degli stati, tra cui l’attuazione dei trattati internazionali. L’accordo, infatti, nell’applicare le sue clausole darà alle imprese e agli investitori privati gli stessi diritti e lo stesso statuto dei governi nazionali. In particolare essi potranno perseguire i governi davanti a tribunali di loro scelta. Tra questi figura il giurì arbitrale della Camera di commercio internazionale! Con arbitri così evidentemente di parte, gli investitori andranno sul sicuro. Una delle disposizioni del testo impone agli stati “di accettare senza condizione di sottoporre i litigi all’arbitraggio internazionale”, obbligo dal quale finora sono esentati grazie al loro privilegio di sovranità. Le azioni giudiziarie sono permesse a imprese e investitori, ma non a cittadini o ad associazioni. L’accordo prevede che i conflitti tra stato e stato vengano risolti da istanze giuridiche internazionali sul modello di quelle dell’Omc. Procedure opache, senza garanzie giudiziarie. Sui termini dell’accordo, i portavoce dei governi e del mondo degli affari si tengono sulle generali: “Non preoccupatevi, dicono in sostanza, non c’è niente di nuovo in questo trattato. Si tratta solo di razionalizzare alcune pratiche esistenti”. Ma l’AMI, come un Dracula politico, non può vivere nella luce. In Canada, la rivelazione della sua esistenza ha sollevato una tempesta politica più grossa di quella per il trattato di libero scambio con gli Stati uniti, dieci anni fa. Negli Usa, il progetto è stato duramente attaccato in Congresso. Curiosamente, coloro che dovrebbero mobilitarsi con maggiore determinazione, i movimenti sindacali, rappresentati nell’OCSE dalle confederazioni internazionali si sono limitati a proporre, senza successo, l’aggiunta all’AMI di una “clausola sociale”. Una posizione denunciata dai movimenti dei consumatori, dalle associazioni di difesa dei diritti umani e di protezione dell’ambiente, e anche da un numero crescente di sindacati che giudicano la proposta simile a una ciliegina messa su un dolce alla stricnina. Né i rappresentanti dei governi, né quelli del mondo degli affari hanno intenzione d’introdurre nell’AMI disposizioni vincolanti. La loro tattica consiste nel prevedere numerose eccezioni e riserve, lasciando così intuire l’ampiezza della minaccia. Non è per nulla rassicurante che ci promettano di avvolgere con la carta i nostri oggetti di valore mentre continuano a cospargere di benzina la casa che va a fuoco. Così i governi del Canada e della Francia si danno da fare per ottenere delle “eccezioni culturali”, mentre i negoziatori americani prendono ordini da Hollywood che intende, grazie all’AMI, esercitare un’egemonia esclusiva su tutte le industrie culturali. Anni di esperienze con il GATT, poi con l’OMC, come pure con altri trattati commerciali internazionali, hanno ampiamente dimostrato che in genere le eccezioni non offrono alcuna garanzia. Così, i piantatori di banane dei Caraibi hanno appena constatato che le clausole di ingresso preferenziale nel mercato europeo, contenute nella convenzione di Lomé, sono state spazzate via dall’offensiva americana presso l’OMC: l’Unione europea è stata condannata in modo definitivo. L’AMI contiene disposizioni che, nei settori di sua competenza, proibiranno in futuro qualsiasi tipo d’intervento da parte degli stati, anzi questi ultimi avranno l’obbligo di abrogare sistematicamente ogni legge non conforme. Chi ha interesse a procedere sulla via della deregolamentazione degli investimenti e del disimpegno dello stato quando i risultati della mondializzazione si rivelano disastrosi? Già ora, ogni governo che in risposta alla domanda pubblica cerchi di risolvere i grandi problemi economici e sociali, deve farlo in un contesto internazionale di instabilità monetaria, speculazione, movimenti massicci ed erratici di capitali e investimenti senza frontiere. Una situazione che non può durare. Salvo che per la piccola minoranza interessata a vederla peggiorare». Fonte onlineTmcrew.org/chiapas/ginevra/ami.html  [N.d.A.]

[9] Al tal proposito scrive Aleksandr Dugin: «L’Intelligenza Artificiale ha parlato molto dei tristi eventi in Medio Oriente. Anche questa è una zona di escalation cruciale. C’è un teso scontro tra forze antagoniste. Non solo a Gaza, non solo in Libano, non solo in Yemen, non solo in Siria, ma in pratica l’intera regione sta per essere inghiottita dalle fiamme di una grande guerra. Evitarlo è molto difficile. Le autorità sioniste sono determinate a costruire un Grande Israele “da mare a mare”. Da qui l’invasione delle alture del Golan e del Libano e il genocidio di Gaza. I conservatori israeliani sono determinati e radicali nelle loro intenzioni. Hanno già dimostrato quanto. D’ora in poi, soprattutto con il sostegno del gruppo pro-Israele di Trump, potranno spingersi oltre. E questa è la sfida. In questo momento in Medio Oriente si stanno verificando eventi davvero molto gravi. Bisogna tenere d’occhio il Medio Oriente. Le cose stanno cambiando. E naturalmente la caduta del regime di Bashshār al-Assad è un colpo per noi. Penso che i globalisti abbiano deliberatamente programmato l’operazione in Siria, coinvolgendo i turchi e altre forze, il Qatar, ad esempio, e altri Stati islamici, al fine di “dimostrare la nostra debolezza”. Non è la nostra debolezza, non hanno raggiunto il loro obiettivo. Tuttavia, la caduta di un regime a noi amico, in cui avevamo un vero e proprio investimento, non può essere definita né un evento “indifferente” né un evento “buono”. È un evento triste per noi, un triste risultato dell’anno che passa. Nel nuovo anno, il 2025, credo che la situazione si aggraverà ulteriormente. Questa non è l’ultima, ahimè, tristezza che il Medio Oriente ci porterà nel prossimo futuro. Non escludo l’inizio di una guerra tra Israele e Iran». Vedi: Aleksandr Dugin, Il fuoco della grande guerra in Medio Oriente, in Escalation – Un anno in rassegna, intervista di Alexey Osin per Radio Sputnik, dicembre 2024. (Nota: Diego Cinquegrana).

[10] «Gli autori della disinformazione sono i gruppi con elevato potere di comunicazione sociale, come le ONG ben finanziate. Ad esempio i Caschi Bianchi (…) producono da anni materiale mediatico con avanzate tecniche di ripresa cinematografica per poi fornirlo alle principali agenzie internazionali di informazione. Nel caso specifico di attacco informativo di inizio aprile relativo alla crisi siriana, il pubblico preso di mira è stato quello (arbitro legittimante) delle democrazie occidentali, allo scopo di offuscarne empaticamente la capacità di giudizio e di accettare istintivamente la risposta armata contro il governo siriano. Naturalmente senza porsi domande sulla legalità di tale intervento, sulla veridicità delle prove fornite e sulla pregnanza degli obiettivi strategici. Lo scopo… generare un casus belli immediatamente invocabile, non quello di consegnare alla Storia un’infallibile ricostruzione degli eventi. Non importa se la verità possa successivamente venire a galla: importa solo che avvenga ormai a fatto compiuto, quando ormai nessuno ci baderà più. La tempistica è tutto nella ‘guerra cognitiva’». Vedi: Mirko Mussetti, Siria: guerra cognitiva, l’ultima dimensione del conflitto, eunews.it, 27 aprile 2018. [N.d.A.]

[11] Vedi: Christian Harbulot, Didier Lucas, La Guerre Cognitive – L’Arme De La Connaissance, Lavauzelle, Parigi, 2002.  [N.d.C.]

 

Terza Roma: Claudio Pirillo – La Terza Roma: prospettive per l’Italia e l’Europa – Parte II: Uno sguardo sulle origini della Terza Roma

Sopra: Stefano Tofanelli (1752-1812), Apoteosi di Romolo, Olio su tela, ca. 1790, Palazzo Altieri, Roma. 



Claudio Pirillo: La Terza Roma: prospettive per l’Italia e l’Europa – Parte I: Nazione e Impero.

 

Iª Sintesi

Il Cristianesimo in quanto tale, superstitio nova ac malefica [1], secondo gli Antichi, non ha alcuna qualità per assurgere al ruolo di Spiritualità Imperiale. Né ieri, con l’obbrobrio carolingio catto-germanico al servizio del potere temporale papista (o con l’assolutismo antitaliano, anticlassico degli Absburgo), né tantomeno oggi con un papato espressione becera della nuova “Santa Alleanza” con il liberismo ipercapitalista del mercato unico, del globalismo ipercapitalismo globale partorito all’interno degli Stati di confessione cristiana (in particolare cristiana protestante, calvinista, luterana) e del dettato talmudico e deuteronomico.

Tuttavia, come già fu per i circoli sapienziali dalla seconda metà del III secolo “d.C.” in poi, non può dubitarsi che il Cristianesimo dell’origine essenica [2] si presti a interpretazioni simboliche – tanto per i profili relativi ai sentieri delle realizzazioni spirituali, quanto per i livelli della sua funzione politica, al di là e al di fuori di ogni temporalismo, di ogni dogmatismo tirannocratico. Il Cristianesimo “niceano” ha ampiamente dimostrato – per quanto abbia predato a piene mani nella rituaria e nell’organizzazione del precedente culto avito – di non essere in grado di intronare l’Imperium

A cominciare dagli Imperatori Costantino (in parte), Graziano e Teodosio, in toto, con la loro rinuncia dichiarata o de facto - alla qualità di Pontifex Maximus. Costantino I, in realtà, pur nei suoi aspetti più truci (fu massacratore dei propri familiari) anche dopo la sconfitta di Massenzio tentò di muoversi fra l’antica dignità pontificale pre-cristiana e il credo della superstizione cristiana. Ma, in concreto, solo l’Imperatore d’Oriente non rinunciò alla sua qualità di “isoapostolòs” [3] che lo rendeva, in pratica, capo della stessa Chiesa cristiana d’Oriente (mentre in Occidente, per esempio, il macellaio Ambrogio era libero di tramare e assassinare ariani e pagani). 

Il culto di San Michele Arcangelo nell’oriente europeo, nuova ipostasi solare apollinea [4], fu sentitissimo nell’Impero dei Romei infinitamente più che in Occidente. Per certi versi, circa l’Impero dei Romani (l’unico, quello orientale – atteso che l’occidentale, dopo Diocleziano e il periodo dell’anarchia militare, divenne solo trastullo dei preti) si può affermare che fu il solo, seppure entro certi limiti, a perpetuare le istituzioni della Roma prisca: Cristo e San Michele furono rivestiti della stessa qualità del Sol Invictus [5] e di Apollo, mentre la Vergine Maria ebbe visibili attributi già dedicati a Diana, alla Venus urania, a Iside [6]. Mutata la forma, ma non mutata la sostanza: così a Costantinopoli e nell’intera Rumelia o Romània. 

L’assassinio di Ipazia (415 d.C.) in Egitto (provincia dell’Impero d’Oriente) fu possibile solo perché l’Egitto era dominato da Cirillo, vescovo di Alessandria, che in forte contrasto col prefetto Oreste poté contare sull’amicizia spassionata di Pulcheria, sorella di Teodosio II, dunque sulla protezione di questi. Un tale assassinio, nell’Impero della dinastia Paleologa, non sarebbe stato possibile. Non tutti gli ortodossi considerano Cirillo un Santo, mentre è da tutti pregato come Santo, Costantino XI. 

Ora, è proprio nella loro ipostasi solare che Cristo e San Michele [7] furono accepiti dal cristiano ortodosso romeno Codreanu o da “cattolici occidentali” come Primo De Rivera o Degrelle. 

Oggi, il ritrovato orgoglio nazionale-spirituale russo - in una maggiore ottica euroasiatista - con le speranze di una risorgenza neoimperiale a valere come “guida di una rinascita spirituale” anche al di qua della Vistola e degli Urali - non è un rigetto del costrutto di nazione, bensì un invito alla scoperta identitaria delle frontiere in ottica paritaria multipolare: semmai si rigetta – giustamente – il confine quale linea di demarcazione mercantile, quel confine globale entro cui si muovono globalmente merci, denaro e persone – queste ultime parificate alle merci

Il pensiero geopolitico della filosofia elaborato all’interno dei circoli neoplatonici russi, offre una insperata possibilità di risorgimento all’intera Europa, non solo alla sua parte russa.

  

«Вασιλεύς Βασιλέων Βασιλεύων Βασιλευόντων» [8].

 

Βασιλεὺς τῶν Ῥωμαίων [9]. L’Impero “bizantino” (Impero Romano d’Oriente) si connoterebbe, secondo molti storici, come di cultura in prevalenza greca - rispetto alla parte occidentale latina – dopo la morte di Teodosio I nel 395 (un anno dopo la battaglia del Frigido [10], nell’autunno del 394, che pose fine al tentativo di restaurazione aristocratica-pagana dell’Impero, a opera del pretendente Eugenio, espressione dei Circoli culturali tradizionali gravitanti intorno a Nicomaco e a Simmaco). 

Fu l’imperatore Valente a utilizzare il termine Impero romano d’Oriente insieme a quello di Impero romano d’Occidente. Col XVIII secolo si impone la dizione di Impero bizantino volendo, gli studiosi, sottolineare una discontinuità con l’impero romano classico – a distanza di tre secoli dalla caduta di Costantinopoli. Le popolazioni dell’Impero d’Oriente, anche dopo la suddivisione in due parti dell’Impero, continuarono ad appellare loro stesse come “romane”, e tali furono considerate da tutte le popolazioni e gli Stati con cui furono in rapporti, diversamente dagli occidentali. 

Per tutta la sua durata, l’Impero d’Oriente fu definito sempre come “romano” dai cronachisti contemporanei e, seppure in lingua greca, gli abitanti dell’Impero chiamavano loro stessi Ῥωμαῖοι (Rhōmàioi) ”Romei”, vale a dire “romani”. Fondando Costantinopoli, Costantino la definiva “Nuova Roma”: il titolo dei suoi sovrani era, infatti, Βασιλεὺς καὶ Καῖσαρ τῶν Ῥωμαίων (Basilèus kài Kàisar tṑn rōmàiōn) “Imperatore e Cesare dei Romani”.

L’intero territorio balcanico, sede dell’Impero d’Oriente, era chiamato Rumelia e i successivi conquistatori ottomani continuarono a chiamarla Rumelia; non solo, gli Ottomani adottarono la parola RŪM, cioè al-Rūm, parola con cui i mussulmani indicavano i “Romani d’Oriente”. 

Non è tutto: dopo la conquista di Costantinopoli i sultani si assegnarono il titolo onorifico di Qaysar-i Rum (“Cesare dei Romani”). Persino il nome di Costantinopoli fu mantenuto (Qusṭanṭīyya), fino alla rivoluzione turca degli anni Venti (con Kemal Ataturk, Presidente della Repubblica Turca nata dalle ceneri dell’Impero ottomano) del Novecento, quando il nome mutò in Istanbul (nome di origine greca, peraltro: eis ten polin - andare/essere – nella città) [11].

Vi sono differenti opinioni, fra gli Storici, circa la data da adottare in ordine al momento “romano-orientale” e a quello “bizantino”: il 395 d.C. segna non solo l’anno della morte di Teodosio I (noto per il suo livore, per il suo odio contro i pagani – si veda il famoso editto [12]) ma anche la separazione definitiva fra le due sponde dell’Impero; a Teodosio I succede il figlio Arcadio che regna fino al 408; alla sua morte, l’Impero passa al figlio Teodosio II, che regna dal 408 al 450. 

È nel suo periodo di regno che Cirillo, vescovo di Alessandria e amico di Pulcheria sorella di Teodosio II (l’Egitto era provincia dell’Impero d’Oriente) fa assassinare, orribilmente, dai parabolani la filosofa e scienziata neopitagorica e neoplatonica Ipazia. 

Secondo altri, la definitiva separazione dell’Impero va posta al 476, data della caduta dell’Impero d’occidente, o il 330 – anno di fondazione, da parte di Costantino I, della Nova Roma o Νέα Ῥώμη, concepita nostalgicamente come copia della Roma primeva. Per altri, la data va fissata al 565, anno della morte di Giustiniano I che fu l’ultimo imperatore d’Oriente di lingua latina (il quale pensava a una Restauratio Imperii), o al 610 (Eraclio I imperatore, che ufficializzò il greco come lingua dell’impero). Seicento anni dopo, nel 1204, i Crociati del papato e i veneziani distrussero l’Impero, restaurato in qualche modo nel 1261 e definitivamente dissolto nel 1453 a opera dei Turchi Ottomani guidati da Maometto II.

La parola “bizantino” (da Bisanzio, antico insediamento greco della Tracia, regione nella quale fu fondata la nuova capitale imperiale di Costantinopoli) non fu mai utilizzata dagli abitanti dell’Impero d’Oriente (395-1453): Essi si definivano Ῥωμαίοι, e chiamavano il loro Stato Βασιλεία Ῥωμαίων (Basilèiā Rhōmàiōn), cioè “Regno dei Romani” o semplicemente Ῥωμανία (Rhōmanìā).

Infatti, per tutto il dominio di Giustiniano I, nel VI secolo, il latino rimase la lingua ufficiale tanto a livello militare quanto a livello amministrativo, in tutti i territori dell’Impero. Il greco era adoperato come lingua franca o in ambito artistico:

• termine “bizantino”, in relazione all’Impero romano d’Oriente: introdotto per la prima volta nel 1557 dallo storico tedesco Hieronymus Wolf, che in quell’anno diede alle stampe il libro Corpus Historiae Byzantinae.

• un secolo più tardi e precisamente nella seconda metà del XVII secolo, Jean-Baptiste Colbert, fece pubblicare nel 1648 – affidata al Gesuita Philippe Labbe – la raccolta di Byzantine du Louvre (Corpus scriptorum historiæ byzantinæ).

• 1680, fu pubblicata a Parigi l’Historia Byzantina, scritta da Du Cange, che contribuì alla iniziale diffusione dell’uso del termine “bizantino” che successivamente si diffuse tra gli autori illuministi francesi come Montesquieu, tutti estremamente critici nei confronti di quell’Impero cristiano e della sua struttura politico-religiosa. [13]

In definitiva, coloro che gli storici moderni chiamano “Bizantini” definivano loro stessi “Romani” pur se di lingua greca: i Selgiuchidi o Selgiucidi che avevano costruito l’Impero ottomano e conquistato Costantinopoli, difesa strenuamente e coraggiosamente, fino alla morte sul campo, da Costantino XI, li chiamavano egualmente “Romani” e fondarono il sultanato di “Rūm”, cioè dei romani, mentre gli occidentali erano definiti Latini, sia in rapporto alla lingua latina trasformata ecclesiasticamente, sia per il dominio della Chiesa in Italia e in Europa.

Nel 1453, dunque, Costantinopoli cade in mano ai Turchi Selgiucidi di Maometto II: l’Impero è finito. Costantino XI, ultimo Imperatore, della dinastia dei Paleologhi (dinastia greco-italiana) Signori di Morea (Mistrà) e Costantinopoli, Signori del Monferrato, tra i cui bisnonni e trisavoli sono anche membri della famiglia Savoia (e non soltanto serbi e greci) muore difendendo la Città.

Nipote di Costantino XI fu Zoe (Sofia) Paleologo, figlia di Tommaso – fratello minore di Costantino XI, riconosciuto Imperatore d’Oriente dal Papa Paolo II, quando sbarcato a Roma proveniente da Corfù ove si era rifugiato (dopo la conquista del despotato di Morea nel 1460 da parte dei turchi), fu ricevuto con tutti gli onori dal Papa. 

Alla scomparsa di Tommaso, le pretese imperiali furono trasmesse al figlio Andrea e, dopo la morte di questi, a Rogerio, fratello minore di Andrea. In realtà, sia Andrea, sia Rogerio, rappresentarono malamente la loro eredità di principi imperiali, sicché il papa Paolo II – su suggerimento del Cardinale Bessarione, intellettuale finissimo e neoplatonico della “Scuola di Mistrà” – propose il matrimonio fra Zoe (Sofia) Paleologo e Ivan III. Zoe era figlia di Tommaso, quindi detentrice dopo i fratelli dell’eredità imperiale. 

Ivan III, principe di Mosca, poté rivendicare per la sua Russia il titolo di Terza Roma. Tra il 1523 e il 1524, il vescovo Filofej scrive al Gran Principe di Mosca e lo esorta a riunificare le province cristiane-ortodosse già parti dell’Impero d’Oriente: “Due Rome son cadute, la terza sta e una quarta non vi sarà”.

Ivan IV (Ivan il terribile) farà sua l’esortazione di Filofej e, nel segno dell’Impero d’Oriente, della Nuova Roma, darà vita alla Grande Madre Russia rivendicando la sua eredità, anche di fronte ai sovrani absburgici che si fregiavano del titolo di Imperatori del Sacro Romano Impero, per nulla romano e tantissimo catto-germanico sud-orientale.

Nel periodo in cui Zoe Paleologo va in sposa a Ivan III (1472) in Italia è attiva l’Accademia Romana di Giulio Pomponio Leto [14] (letterato e scienziato insigne, di origine calabre-lucane), figlio naturale del principe Sanseverino. Giulio Pomponio Leto si prefigge la Restauratio Romana. Lui stesso assume nell’Accademia il titolo di Pontifex e gli aderenti assumono nomi romani. Egli considera l’Impero d’Oriente come romano e non greco.

«[…] Certo, Pomponio aveva per la sua Roma, per la dèa del mondo, a cui nulla è pari nè secondo, un culto fanciullescamente sublime. Un suo epigramma, conservato dallo zibaldone di Marin Sanudo, esprime quest’affetto con tutta la forza di un entusiasmo ingenuo e sincero: Roma triu[m]pha[n]tes inter celeberrima ge[n]tes Terraru[m] domitrix imperiale caput. Bisogna poi sentire, com’egli parla di Roma nei “Cesari”, mentre la dipinge, affranta, devastata dagl’invasori, orbata del suo primato mondiale, ridotta ad una vasta desolazione, mentre narra la fine miseranda dell’Impero d’Occidente e l’inglorioso tramonto dell’Augustulo: “Haec sunt tua monimêta parês Romule esclama Pomponio haec est illa aeterna urbs [...] quae undiq[ue] victo pene orbe advectos triûmphos recoepit cuius imperiû occidêtis oceano, [et] Trânstygritanis regnis terminatû. Tu ne illa Roma ad quâ quot sût sub coelo gêtes, côvenire ius erat, quæ înumerabiles Colonias emisisti sed iâ civili intestinoq[ue] odio eo lapsa es, ut honorificêtior habereris, si nomen tuû tantûmodo extaret. Quoniâ dissentio[n]e partiû, [et] adsidua vastatio[n]e Romani agri, ita a tuis p[rae]sertim dilaniata es, ut exactâ vetere pomerio mutilatâq[ue] in Campo vix côsistentê, nostra aetas nô sine lachrymis côspiciat. Auget p[raeterea dolorê, q[uod] qui praesunt, licet velint, adiumentû t[ame]n ferre nô possunt”. E più sopra, narrate le tristi vicende dell’Augustulo, l’umanista osserva: “in eo sanctissimû Augustor ‘ cognomê memorat[ur] et si Iustinianus postea iura vindicavit neminê purpura [et] diademate insignitû ipse [et] alij qui secuti sunt principes occidenti præfecerût. Gothi ab Augustulo ad Iustinianû regnû tenuere. Mira res, ne q[uo]d integrû maneret defecit cognomê Augustorû in uno côsule Basilio, cû consulat ‘ antea duos [sic.1. duorum] fuisset q[uo]d scilicet fore portêdit urbis Ro. excidiû. Haec sunt Tite Arunti quae tu ante aliq[uo]t secula p[rae]dixisti, ex Romuli Vulturibus  utrû confusus fuisset nûerus, ne quis tutelâ vinciêdo , iacturâ p[er] oraret | Matheseos peritus homo îvenit rê Sacerdotû vitio turbatâ nec clavi in pariete Minervae tâ liquido côstitere nec annales sub titulo consulû tenere numerû potuerût”. È più che naturale, per un uomo dello stampo di Pomponio, l’intenso sentimento di romanità, talvolta molto ingenuo ed un po’ ridicolo, il modo orgoglioso col quale egli chiama Romolo “parens noster”, e “nos” gli antichi Romani, gli scatti d’un patriottismo romano che gli fanno non di rado dimenticare la solita serena equanimità; meno ovvio è il fatto della trasfusione di questo sentimento e di questo patriottismo anche sull’impero dei Romei d’Oriente. Lo scienziato, di cui si volle fare il paladino d’un antiellenismo ad oltranza, chiama invece senz’altro “Imperium Romanum” la Bisanzio di Foca, pur dolendosi amaramente che questo pomposo epiteto fosse stato ridotto ormai quasi ad un vano nome senza contenuto. Foca è però per lui sempre l’Imperatore, ed i nemici che gli fanno guerra, sono “Romanor ‘ hostes”. Non parliamo poi di epoche anteriori: i trionfi di Giustiniano e di Belisario vengono descritti colla stessa mal celata passione, che sgorga, prepotente e festosa, dalle maravigliose pagine del commento di Floro, nei momenti ove Pomponio illustra le maggiori glorie della Repubblica, le gesta di uno Scipione Africano, e d’un Emilio Paolo» [15].

Zabughin, nei suoi due volumi dedicati a Giulio Pomponio Leto, ci informa sui due viaggi da questi compiuti:

«[…] Il suo insegnamento venne interrotto da sole due assenze, tutt’e due brevissime, quantunque dovute a viaggi nei paesi d’oltralpe, nel 1479-80 il primo, nel 1482-83 il secondo. Difatti, il grande periplo d’Oriente, nel quale l’umanista visitò la Polonia e la Russia meridionale, seguendo probabilmente la solita strada commerciale che da Cracovia e dalla così detta Russia scarlatta (l’odierna Galizia orientale ) conduceva alla foce del Dniepr ed al mar Nero e ritornando poi per l’Egeo alla sua Roma, non durò più d’un anno. Poco sappiamo di questo viaggio, e […] il Pontefice, desideroso di arricchire di “buoni libri” la biblioteca da lui fondata “pro publica utilitate” presso il Vaticano, ordinava al porporato (il cardinale Osia di Podio) di trovarne in Germania ove questi andava nella qualità di legato de latere per assistere alla dieta di Norimberga, affidando quest’incarico a varie persone del suo seguito (aliquos ex tuis), e specialmente a Giambattista, vescovo di Fermo ( G. B. Capranica, il Pantagato, la cui vecchia amicizia invitò anche il Leto a sobbarcarsi al lungo e faticoso viaggio), nonchè al “diletto figlio Pomponio Balbo”, i quali, assieme ai loro compagni, non sappiamo se umanisti o semplici amanuensi, la cui scelta incombeva al cardinale, senza che il breve accenno ad una qualunque limitazione del loro numero, avevano pieni poteri per entrare liberamente in tutte le biblioteche dei monasteri, delle chiese e di altri siti “ipsius Germaniae” e farvi trascrivere quanti e quali codici volevano. Ora, Pomponio tace completamente ed ostinatamente di questa missione filologica, che pur era lo scopo ufficiale del suo viaggio, e per la quale egli, probabilmente, era stato pagato. Nonbasta: mentre egli si dilunga coi suoi allievi sulle bizzarre abitudini dei fibri del mar Nero, sui vari usi che gli Sciti fanno dell’avena, sulla slitta russa, sulla lunghezza delle giornate estive in Iscitia, sul modo speciale, usato da quei popoli per preparar le frutta secche, non una parola, seppur incidentale, non un, anche fuggevole, rammenta una biblioteca da lui visitata, un codice scoperto e fatto copiare [...] Neppur un’accenno alle biblioteche, ai codici, agli scrittori sconosciuti salvati dall’oblio, a ciò insomma che fecero Poggio ed Enoc Ascolano e che non fece, pur dovendolo, Pomponio! V’è di più: neppur un lontano ricordo di viaggi o gite nella Germania propriamente detta: sta di fatto, che, mentre il cardinale legato si avviava verso la Franconia per raggiungervi i membri della dieta imperiale, Pomponio  non sappiamo se solo od in compagnia di Pantagato, si staccò dalla comitiva, appena valicate le Alpi, e, sfiorando soltando i paesi di lingua tedesca, seguì la strada, so- lita ad esser percorsa dai viaggiatori da e per la Polonia , indi rifece in gran parte  nel senso inverso , il giro compiuto dieci anni prima da Filippo Callimaco, viaggiando però con molta rapidità  per poco non affogò nel Mar Nero, che attraversava d’inverno e, tra il gennaio e l’aprile 1480, “suam Romam cuius ob iucundissimam et honoratissimam Romanorum civium (a quibus ut numen semper cultus est) consuetudinem desiderio vel maximo tenebatur avide revisit”» [16].

Perché, Pomponio, mostra tanta riservatezza sui suoi viaggi verso la Russia? Doveva, Pomponio, forse, incontrare esponenti del principato di Mosca ovvero, scienziati e studiosi della terza Roma, della Schola di Mistrà (o Morea, l’antica Sparta, di cui i Paleologo erano stati despoti) che a Mosca avevano trovato protezione? Come sappiamo, Zoe Paleologo era sposata a Ivan III, matrimonio voluto dal Papa Paolo II (nel 1469 e celebrato nel 1472), ma su ispirazione del Bessarione.

Bessarione, nato a Trebisonda forse nel 1403, aveva studiato filosofia, matematica, alla scuola di Mistrà con Gemisto Pletone. Decisamente amante di Platone, la sua Casa a Roma divenne cenacolo dei neoplatonici italiani e greci. Molti di tali studiosi erano membri dell’Accademia Romana di Giulio Pomponio Leto, che fu lui stesso direttamente in contatto col Bessarione.

Bessarione fu abilissimo Diplomatico e strenuo sostenitore della necessaria riconquista di Costantinopoli, dopo la caduta dell’Impero nel 1453. Il matrimonio di Zoe Paleologo con Ivan III fu concepito in termini politici: se Ivan III ereditava per la sua corona, mercè il matrimonio, l’Impero quale Terza Roma, Mosca avrebbe potuto e dovuto rifondare l’Impero, riconquistandolo ai Turchi.

Fu Bessarione ad accompagnare a Mosca Sofia (Zoe) Paleologo per il matrimonio formale con Ivan III, dopo quello celebrato per procura a Roma nel 1472. Il mondo ortodosso rifiuta il termine “bizantino”. Secondo varie pubblicazioni:

«Nel mondo greco attuale come nel mondo russo e orientale in genere, non si tiene conto affatto di questa denominazione “occidentale”, diffusa in particolar modo nella cultura e nel mondo anglo-sassone. Nella cultura e storiografia orientale come nell’uso comune dei molti paesi che facevano parte dell’antico impero, non si utilizza il termine “bizantino”, ma termini derivati strettamente dalle parole originali. Questo termine “bizantino” è invece inteso come un’espressione intenzionalmente dispregiativa di parte occidentale, nei confronti di quell’Impero romeo, dal mondo cristiano orientale greco-russo ad esso ancor oggi storicamente legato. La Chiesa ortodossa di Costantinopoli come quella di Mosca, tutti i Patriarcati, rifiutano decisamente il termine “bizantino” e mantengono ancora oggi inalterati l’uso dei termini storici originali» [17].

Eredità contesa, Eredi non nominati.

Nel corso dei secoli, non vi è stato Regno o nuovo Impero che – in Europa – non abbia tentato di darsi una apparenza “romana”. Nei fatti, dall’800 d.C. a tutta la prima metà del XX secolo, attraverso le lotte fra Papato e Impero, i movimenti e le rivoluzioni del XVIII secolo e del XIX secolo, le due guerre mondiali, tutte quelle Potenze economiche che arrivarono a stabilirsi come Nazioni (Regni) allungarono le loro mani sulle terre al di là dell’Atlantico, nei mari del nord, come in Medio ed estremo oriente, fino all’Oceano indiano e fino al Pacifico: tutti a tentare di costituirsi in Impero e,subito dopo, adottare – in un modo o nell’altro – titoli e simboli derivati dalla Roma repubblicana, dalla Roma dei Cesari: Spagna, Olanda, Francia, Inghilterra, Austria, Germania (nel XV e XVI secolo, persino la Polonia estendeva il suo regno entro quei territori russi che costituivano l’attuale Ucraina).

I matrimoni, le parentele, furono il veicolo per trasmettere il titolo di Imperatore (del SRI) dai Franchi fino a Carlo V e quindi direttamente all’Austria. Mentre l’Inghilterra già agli inizi del XIX secolo consolidava il suo Impero e la Germania lo realizzava dopo la vittoria di Sedan. 

Già la parola Impero bastava – nella logica della Compagnia delle Indie, della Compagnia Olandese di Giava; nella logica della “fedeltà” al trono e all’altare e dell’intangibile diritto sovrano – a donare la tanto bramata dignitas romana (peraltro, mai effettivamente posseduta da nessuno dei nominati di cui sopra).

Senonché, una cosa è l’impero economico, una cosa è l’Imperium come espressione del Fatum.

Quello economico fu di tanti, ma se l’Imperium voluto dal Fatum fu e resta della Romanità prisca, come più volte abbiamo affermato, non è detto che proprio il Fatum di Roma non possa servirsi di…eredi riconoscibili per volontà del Nume; tale “missione” restauratrice, per vie ignote ai mortali potrebbe essere stata affidata proprio alla Russia, quella Russia già costantinopolitana per acquisizione dinastica e che oggi fa proprio il disegno di una Europa da Lisbona a Vladivostok (i due punti estremi dall’Europa, da occidente a oriente). 

E sui sentieri imprescrutabili del Fatum vennero già i Longobardi, penetrati in Italia nel 568 d.C. – unico popolo germanico a italianizzarsi nell’epoca del loro dominio più stabile, durato poco più di due secoli, come riconosciuto anche dal Machiavelli – che avevano tentato, riuscendovi in parte, a costruire una sorta di Unità italiana romano-longobarda in cui l’elemento romano aveva finito per diventare quello primario nel diritto e nell’organizzazione. Sogno stroncato dal “globalismo ante litteram” del potere temporale dei papi, sostenuto dalla potenza militare dei barbari Franchi.

Abbiamo, infatti, già all’inizio di questa disamina, annotato che molti c.d. tradizionalisti che si appellano alla tradizione dell’Impero, dimostrano una notevole confusione di comodo e finiscono, mentre parlano di impero, per diventare sostenitori del temporalismo papista (almeno in Europa).

Quale romanità si può mai ravvisare in un Carlo Magno, in un Federico I Barbarossa, in un Absburgo?

Chi ne è convinto evidentemente mistifica la romanità. Quali somiglianze è mai possibile intravvedere fra un C. G. Cesare Augusto, o un Flavio Giuliano, e gli “imperatori” catto-barbarici delle rive danubiane o di quelle del basso Reno e dell’Issel che popolarono Vindobona e Lutetia (Parisia)?

L’Impero romano d’Occidente e l’Impero romano d’Oriente si differenziarono al punto tale che da un punto di vista più ‘stretto’ nessuna delle due parti poteva assumere di essere l’unica ROMA; ma, mentre in occidente l’aggettivo “romano” finì per definire solo la Chiesa e le sue creature politiche, in oriente un tale aggettivo rimase qualificante per l’istituzione, il popolo, l’imperatore, a mente della primiera divisione che fece di Arcadio (pur figlio di Teodosio I) il primo Signore dell’Impero d’Oriente (con tutte le sue prerogative sacrali).

IIª Sintesi

Vi sono sufficienti ragioni per cui l’Impero romano d’oriente possa dirsi in eredità russa per trasmissione dinastica:

• Vi sono sufficienti ragioni per cui gli odierni circoli culturali tradizionalisti russi – seppur nominalmente cristiani ortodossi, costantinopolitani in origine, di fatto neoplatonici e con contenuti di studio a carattere esoterico – attivi sin dagli anni ’60 e che hanno visto la partecipazione di personalità di ogni etnia, fede e provenienza politica, possono assumersi il compito di far da squilla per una ripresa “multipolare – nazionale – identitaria - imperiale” in primis nei confronti di un’Europa occidentale ormai dissolta, annullata nell’obbrobrio dell’ipercapitalismo finanziario globale a direzione monopolista atlantista, tanto da non essere capace di alcuna Ἐλευθερία e nemmeno di autonomia (culturale, politica, economica). Come è stato detto: la rivoluzione di domani dovrà essere segnata dall’anticapitalismo, quindi dalla vittoria dello Spirito sulla più bruta materialità. In ogni nazione, in vista di una armonia imperiale di pace, di collaborazione, di rispetto, fra i popoli, la “rivoluzione” contro il nemico dell’uomo condurrà a quella pax universalisfrutto della conoscenza, dell’amicizia, di contro al sistema della predazione e della sopraffazione operata dal Mercato Unico.

• Al netto di alcune valutazioni nate in un precedente ambito nazional-bolscevico, OGGI RIGETTATE, circa il magismo operante nei circoli tradizionali, in specie italiani o di adepti stranieri operanti in Italia, il neoplatonismo russo attuale riscopre e rivaluta proprio la tradizione operativa che – e di nuovo – soprattutto in Italia – si affermava sin dalla fine del XIX secolo e fino ai giorni nostri, come retaggio rinascimentale e del XVIII secolo: quando appunto ritorna a farsi sentire l’Idea di Nazione come comunità di popolo, di romanità classica, di ellenicità. La RUSSIA è EUROPA e, anche nella considerazione di altera pars, l’assunzione dell’eredità costantinopolitana – se davvero convinta e sincera come appare – le impone una scelta, peraltro caldeggiata dagli stessi Circoli culturali, che già fu di Ivan III, di Ivan IV e così via.

•  La Nuova Russia si risveglia avendo in mira se stessa come “Stato Imperiale” e rivendica la sua eredità romana del XV-XVI secolo. […] Virgilio scrisse: «Roma non cesserà di essere Roma: Giove non le assegna limiti, né di durata temporale né di spazio» [18]. Così: «[…] mentre i russi confidano nella saldezza della Terza Roma, nulla impedisce che l’attuale megalopoli – e colonia america – che porta il nome di Roma risorga e torni ad essere la sede della prima Roma imperiale, capitale d’Europa» [19]. Il riferimento alle parole virgiliane riportate da Maurizio Murelli è tanto nel Canto I quanto nel VI dell’Eneide, il canto più iniziatico dell’intera opera:

CANTO I

Romulus excipiet gentem et Mavortia condet moenia

Romanosque suo de nomine dicet.

his ego nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi.

Quin aspera Iuno, quae mare nunc terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius referet,

mecumque fovebit Romanos, rerum dominos gentemque togata [20].

 

CANTO VI

[…] In compagnia de l’avo

Romolo se ne vien, di Marte il figlio,

Di Roma il padre. Al mondo Ilia darallo

De la stirpe d’Assáraco un rampollo.

Questi, figlio, sarà quel grand’eroe,

Onde i suoi primi glorïosi auspicii

Avrà l’inclita Roma, quella Roma,

Che, sette monti entro al suo cerchio accolti,

Tanto si stenderà, che fia con l’armi

Uguale al mondo, e con le menti al cielo:

Roma di così prodi e chiari figli.

Fine. 

 


Note

*Le note dell’autore, Dott. Prof. Claudio Pirillo, sono seguite dalla sigla [N.d.A.]; le note dell’editor, Diego Cinquegrana, sono seguite dalla sigla [N.d.C.]; ulteriori note di altri collaboratori sono seguite dal nome e cognome (o le iniziali) del collaboratore stesso.

[1] La frase intera dalla quale è tratto l’inciso recita: Afflicti supliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae. Trad. “Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica”. Gaio Svetonio Tranquillo, Vita dei dodici CesariNeronis XVI, 2. [N.d.C.].

[2] Il Cristianesimo essenico si riferisce all’influenza della setta degli Esseni sul primo cristianesimo, caratterizzata da pratiche ascetiche e comunitarie. Il Cristianesimo niceano è invece quello codificato nel Concilio di Nicea (325 d.C.), che stabilì i principi fondamentali della dottrina cristiana ortodossa, in particolare la natura divina di Cristo e il concetto di Trinità. Per approfondimenti: Atanasio, Il Credo di Nicea, Città Nuova, Roma, 2001. [N.d.C.].

[3] Dal greco ἰσαπόστολος (uguale agli apostoli). Titolo degli imperatori di Bisanzio quali vicari di Dio in terra. [N.d.C.].

[4] Il profondo radicamento del culto micaelico nell’Impero Bizantino rappresenta un affascinante caso di studio per comprendere i processi di sincretismo religioso tra paganesimo e cristianesimo nel Mediterraneo tardoantico. La venerazione dell’Arcangelo Michele nell’oriente cristiano, si caratterizza per una significativa sovrapposizione con precedenti culti solari, in particolare quello di Apollo, evidenziando una continuità cultuale che si manifesta sia negli aspetti simbolici che nelle pratiche rituali. Il carattere solare di San Michele emerge con chiarezza nell’analisi comparativa con il culto apollineo. Come Apollo rappresentava le potenze celesti in opposizione alle forze ctonie – emblematica la sua vittoria sul serpente Pitone a Delfi – così l’Arcangelo Michele viene rappresentato come vincitore sul drago, in una chiara trasposizione cristiana dello stesso mitologema. Questa sovrapposizione simbolica si riflette anche nella geografia sacra: i principali santuari micaelici in Europa occidentale seguono un particolare allineamento, lo stesso che unisce i grandi santuari apollinei di Delo e Delfi. Il caso del santuario garganico di San Michele offre un esempio paradigmatico di questa stratificazione cultuale. Prima della cristianizzazione, la grotta ospitava il culto dell’indovino Calcante (μάντις – che aveva ricevuto il dono della divinazione da Apollo), come attestato da Strabone che descrive la presenza sul territorio di “due santuari, uno sulla cima più elevata dedicata a Calcante [...] l’altro in basso, a Podalirio (ἰατρός)”. La pratica dell’incubatio, documentata in entrambi i culti pagani, trova continuità nella tradizione cristiana: i fedeli continuarono a dormire nella grotta per ricevere responsi divini e guarigioni, ora attribuiti all’intercessione dell’Arcangelo “iatromante solare” – Apollo (divinità della profezia) → Calcante (suo sacerdote/indovino) e Podalirio (figlio di Asclepio/guaritore) → San Michele (nuovo intermediario divino). L’aspetto terapeutico, centrale nel culto di Podalirio – figlio di Asclepio e rinomato guaritore – viene assorbito nella venerazione micaelica attraverso il culto delle acque. La “stilla” miracolosa che sgorgava dalla roccia della grotta garganica, rappresenta una chiara continuità con la tradizione iatromantica precedente, testimoniata dal “fiumicello le cui acque guariscono tutti i morbi del bestiame” menzionato da Strabone. La dimensione iniziatica del culto si manifesta attraverso elementi simbolici ricorrenti: la Montagna: il Monte Gargano, come altri luoghi di culto micaelico (Mont Saint-Michel), rappresenta l’axis mundi, punto di connessione tra terra e cielo; la Grotta: spazio liminale per eccellenza, luogo di passaggio tra mondo ctonio e dimensione celeste; l’Acqua: elemento purificatore e rigeneratore, medium della potenza taumaturgica divina. L’analisi del culto micaelico nella sua dimensione solare e taumaturgica – qui esposta per sommi capi – rivela un complesso processo di assimilazione e trasformazione di precedenti tradizioni religiose, processo che trova particolare risonanza nella Chiesa ortodossa russa, dove l’Arcangelo Michele mantiene ancora oggi un ruolo centrale come protettore celeste e guida spirituale, testimoniando la persistenza e l’adattabilità di questi antichi elementi cultuali. Per approfondimenti: Alexandros Tsakos, The Archangel Michael Beyond Orthodoxies, Bloomsbury, New York, 2025. [N.d.C.].

[5] Il rapporto tra Cristo e il Sol Invictus rappresenta un importante esempio di sincretismo religioso nel periodo tardo-imperiale romano. Il culto del Sol Invictus (Sole Invitto) divenne culto ufficiale dell’impero romano sotto Aureliano nel 274 d.C. e nel periodo di transizione tra paganesimo e cristianesimo, molti attributi e simbolismi solari furono trasferiti alla figura di Cristo, ivi inclusa la collocazione della natività a ridosso delle festività legate al solstizio d’inverno. Nell’iconografia paleocristiana, Cristo venne spesso rappresentato con attributi solari: l’aureola (simbolo solare), il carro solare, i raggi luminosi. Cristo venne identificato come “Sole di Giustizia” (Sol Iustitiae) e “Luce del Mondo”, riprendendo la simbologia della luce divina presente nel culto solare. La direzione est delle chiese cristiane primitive riflette l’orientamento verso il sole nascente, simbolo della resurrezione di Cristo. Questa sovrapposizione simbolica facilitò la transizione dal paganesimo al cristianesimo, permettendo ai convertiti di mantenere alcuni elementi familiari del culto solare reinterpretati in chiave cristiana. Questo processo è particolarmente evidente in alcuni mosaici paleocristiani, dove Cristo viene rappresentato con attributi tipici del Sol Invictus, come nella necropoli vaticana. L’assimilazione fu così profonda che ancora oggi molti elementi della liturgia e del simbolismo cristiano mantengono tracce di questa origine solare. [N.d.C.].

[6] La Vergine Maria ha assorbito molti attributi delle dee pagane precedenti: da Diana ha ereditato l’aspetto lunare e la verginità sacra; da Venus Urania (Venere celeste) la purezza spirituale e il ruolo di regina celeste; da Iside il ruolo di madre divina e protettrice, oltre all’iconografia che la ritrae mentre allatta il bambino divino. [N.d.C.].

[7] Corneliu Zelea Codreanu, leader della Guardia di Ferro rumena, utilizzò le figure di Cristo e San Michele Arcangelo come simboli del suo movimento. In particolare, San Michele era il patrono della Guardia di Ferro, rappresentando l’ideale del guerriero spirituale. Per approfondimenti: Constantin Iordachi, Charisma, politics and violence: the legion of the “Archangel Michael” in inter-war romania, in Ideologies and National Identities, Central European University Press, Budapest 2006. [N.d.C.].

[8] Motto dell’Impero d’Oriente: Basiléus Basiléōn, Basiléuōn Basileuòntōn. “Re dei Re, Regnante dei Regnanti” (Sotto i Paleologi, 1259-1453). [N.d.A.].

[9] Basilèus tôn Rhōmàiōn: “Imperatore dei Romani/Romei”.

[10] La battaglia del Frigido (394 d.C.) fu uno scontro decisivo tra l’imperatore cristiano Teodosio I e l’usurpatore Eugenio, sostenuto dai pagani. La vittoria di Teodosio segnò il definitivo trionfo del cristianesimo come religione dell’impero. [N.d.C.].

[11] Istanbul deriva dal greco medievale εἰς τὴν Πόλιν (eis tēn pólin), che significa “nella città”. Col tempo, questa frase greca venne adottata dai turchi come “Istanbul”. [N.d.C.].

[12] L’Editto di Tessalonica (380 d.C.) di Teodosio I rese il cristianesimo niceno religione ufficiale dell’impero. Per i pagani comportò il divieto dei sacrifici, la chiusura dei templi e la confisca dei beni dei santuari. [N.d.C.].

[13] Il Corpus scriptorum historiæ byzantinæ di Hieronimus Wolf (1516-1580) fu uno dei primi tentativi sistematici di raccolta e studio delle fonti bizantine, fondamentale per lo sviluppo della bizantinistica; La Byzantine du Louvre fu un’importante edizione delle fonti bizantine curata da Philippe Labbe (1607-1667), parte del più ampio progetto del Corpus scriptorum historiæ byzantinæ parigino; L’Historia Byzantina di Du Cange (1610-1688) è un’opera monumentale che comprende sia la storia bizantina che un glossario del greco medievale, ancora oggi riferimento fondamentale per gli studi bizantini. [N.d.C.].

[14] Giulio Pomponio Leto (1428-1498) fondò l’Accademia Romana, centro fondamentale dell’Umanesimo italiano. L’accademia si dedicava allo studio dei classici e alla riscoperta della cultura antica, ma fu anche sospettata di paganesimo e temporaneamente sciolta da Paolo II. Per approfondimenti: Maria Accame Lanzillotta, Pomponio Leto. Vita e insegnamento, Tored, Tivoli, 2008. [N.d.C.].

[15] Vladimiro Zabughin, Giulio Pomponio Leto, Saggio critico, La Vita Letteraria, Roma 1909, pp. 239-240, (nb: il grassetto è nostro). [N.d.A.].

[16] Ibidem, pp. 193 e seguenti. [N.d.A.].

[17] Per quanto precede, vedi: Mark Cartwright, tradotto da Giovanni De Simone, Impero bizantino, su worldhistory.org. «Viene spesso chiamato Impero Romano d’Oriente»; «Invece, nel suo primo periodo [324-610], l’Impero bizantino era ancora effettivamente Impero romano e tutta la sua vita era fittamente contesta di elementi romani. Questo periodo, che si può chiamare sia il primo periodo bizantino, sia il tardo periodo dell’Impero romano, appartiene alla storia bizantina non meno che alla storia romana. I primi tre secoli della storia bizantina – o gli ultimi tre secoli della storia romana – sono una tipica età di transizione che conduce dall’Impero romano all’Impero bizantino medioevale, in cui le forme di vita dell’antica Roma man mano si estinguono e cedono il posto alle nuove forme di vita dell’età bizantina». (Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, p. 27.). Ostrogorsky colloca la fine del periodo tardo-romano dell’Impero bizantino nel 610, anno dell’ascesa di Eraclio. L’enciclopedia Il mondo bizantino e la The Prosopography of the Later Roman Empire collocano invece la fine del periodo tardo-imperiale nel 641, sempre con Eraclito ma alla sua morte di Eraclio. Giorgio Schirò, Breve storia dell’Impero Bizantino, su liceoreginamargherita.edu.it, 2018. URL consultato il 2 settembre 2024. (EN) Speros Vryonis, The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, ACLS Humanities, 2008, p. passim. (EN) Clifton R. Fox, What, If Anything, Is a Byzantine?, su romanity.org. Url consultato il 19 settembre 2023 (archiviato dall’url originale il 5 aprile 2023). [N.d.A.].

[18] Maurizio Murelli, Premessa alla lettura del libro – L’amore per l’Europa di Darya Dugina. In Darya Aleksandrovna Dugina, Teoria Europa, AGA Editrice, Milano, 2024, p. 20. [N.d.A.].

[19] Ibidem.

[20] «Romolo raccoglierà questa stirpe e fonderà le mura di Marte e chiamerà Romani dal suo nome. A costoro non pongo né limiti di spazio né di tempo: ho dato loro un impero senza fine. Anzi, la fiera Giunone, che ora con la paura tormenta il mare, le terre e il cielo, muterà in meglio i suoi propositi e con me favorirà i Romani, padroni del mondo e gente togata». [N.d.C.].

 

Terza Roma: Claudio Pirillo – La Terza Roma: prospettive per l’Italia e l’Europa – Parte I: Nazione e Impero

Sopra: Saturnia Tellus, rilievo esterno lato Est, Ara Pacis Augustae, 13 – 9 sec. a.C. Museo dell’Ara Pacis, Roma.



Claudio Pirillo: La Terza Roma: prospettive per l’Italia e l’Europa – Parte I: Nazione e Impero.

 

La parola Tradizione (Traditio) deriva dal verbo latino tradĕre con valore di affidare, tramandare, trasmettere, comunicare. In senso spirituale, la Tradizione è data dal Corpus di norme, regole e riti –validi per ogni tempo e luogo – atto a perpetuarla. Persino il verbo italiano tradire – nel senso di consegnare – al nemico – può essere fatto risalire al verbo tradĕre. Per il verbo tradire si usa anche il verbo prodoprodĕre (tradire, consegnare, svelare, propagare): aliquem alicuius prodo, tradire qualcuno; Multi ob pecuniam amicos produnt, Molti tradiscono gli amici per il denaro. Altri verbi con significato di “tradire”, Fallĕre, aperire. Dal verbo prodĕre, l’aggettivo ‘proditorio’ e il sostantivo ‘proditore’, vigliaccamente e vigliacco. La partita linguistica, per quanto di interesse, si gioca sull’ambivalenza di tradĕre: ambivalenza per la quale può valere l’inversione dei significati, delle parole, dei simboli, oggetto di scritti evoliani.

La Tradizione: alimentare il fuoco, portare la luce, NON adorazione della cenere (pur importantissima nel suo significato ermetico-alchimico).

Orbene, dalla fine del II conflitto mondiale è ricominciata – tanto da parte della destra reazionaria quanto della sinistra marxista, alleate agli ambienti ultraclericali e ipercapitalisti – la guerra al concetto stesso di nazione, verso gli interi sensi del costrutto (nazione e nazione – stato come sovrastruttura, nazione come soggetto di origine illuminista-mercantile etc.).

Vediamo di comprendere correttamente come stanno le cose in realtà, linguisticamente:

«La parola ‘natio’ (nazione, gente, nascita, genere, razza; classe, generazione, setta, genia, schiera) trova la sua origine in ‘nascor’ (nascere, essere generato, derivare, discendere,crescere, svilupparsi, ergersi, innalzarsi). Per esempio, ‘Suebis nationis’ (svevo di nascita); ‘natioptimatum’ (classe degli ottimati); ‘natio epicureorum’ (setta degli epicurei); ‘amplissimo genere natus’ (nato da nobilissima schiatta); ‘fluminibus alni nascuntur’ (gli ontani crescono sulle rive dei fiumi). Il Brozzi, nel suo ‘Dell’Origine e Natura del Linguaggio ossia Etimologia della Lingua Latina coi rapporti tra l’idee e le radici delle parole’ spiega che la radice indoeuropea sna ha valore di ‘legame’, ‘corda’, ‘allacciare’, ‘avvolgere’ etc. (cfr. Brozzi cit, Città di Castello, 1909); per aféresi della ‘s’ deriva ‘na, con significato di ‘filo’, ‘vinculum’. L’ampliazione con la dentale ‘t’ da ‘nat’, con valenza di ‘stringere, accumulare, ammassare’. 

Quindi, nazione è – letteralmente – ciò che unisce e vincola popoli che vivono in luoghi diversi di un più vasto territorio, è la comunanza o l’assimilabilità dei culti e degli usi recati da un ethnos unico o compatibile per antica comunione, che la storia successiva di seguito dilata. 

È quanto è accaduto per le primeve comunità indoeuropee. In Italia, Roma fece di ‘genti diverse’ un’unica nazione; nell’ancor più frammentata Europa di quelle epoche Roma fece un unicum, un Impero dall’Atlantico alle pianure sciite, dal mare del Nord all’estremo Sud, fino alle coste mediorientali del Mediterraneo, ovunque portando la saggezza della sua giustizia e del suo diritto […] un Impero costruito con una scrupolosa attenzione alla specificità della propria Anima romana» [1].

Dai tempi antichissimi della nostra Civiltà Italica, il territorio entro le cui frontiere viveva il popolo della Natio, si legava al Genius Loci, espressione e funzione del maggior Genius Italiae. Il concetto stesso di Genio che sovrintende e protegge la vita e l’intelletto del popolo rimanda tanto a un Entespiritualmente intelligente che si lega al locus e alla vis del popolo, quanto alle capacità creative e alle abilità del medesimo popolo nelle sue élite intellettuali e militari.

Al culto della Nazione (la Dea Italia, la Dea Roma, la Dea India, il Dio Giappone, la Santa Russia etc.) è legato il culto degli Eroi: la Nazione – in quanto divinizzata e Dea unita misticamente all’Imperatore, al Rex (Rex Sacerdos) nella sua duplice funzione umana e celeste – è la terra dei Patres, è la terra dei fondatori eponimi, di coloro che – essendosi sacrificati per la sua grandezza e per la salvezza delle genti, del popolo, ai quali spetta un trono nel Cielo urbico, nel Tempio celeste, tal quale nel ciceroniano Sogno di Scipione.

In Corradini, la nazione e l’imperatore sono una cosa sola e, scrivendo intorno alle tradizioni nipponiche, lo afferma chiaramente:

«Con il culto degli eroi, dell’imperatore e della natura, il popolo giapponese compiva atti di autoadorazione, che integravano la collettività e consolidavano una coscienza nazionale…”. “Il Giappone è il dio del Giappone. La forza che questo popolo attinge alla religione è forza attinta nelle sue stesse viscere, gli eroi sono popolo del passato, la natura è la patria: v’è un’autoadorazione».

Così Enrico Corradini, il 19 giugno 1904 nel suo scritto UNA NAZIONE pubblicato ne IL REGNO. E così in tutta la sua produzione letteraria e saggistica, il Corradini afferma:

«Magnifica è la religione degli eroi e della natura. La rivoluzione francese rimise in onore due grandi cose: il valore militare e il culto della patria e della natura. Bisogna su questi punti riprendere le tradizioni rivoluzionarie (…). Noi pensiamo ad una religione che ci renda il sentimento della natura qual è nella salutazione di Mitra, congiunto al culto degli eroi, cioè di quella parte di umanità che è passata su questa terra per creare in alto il regno dell’eterno umano ideale» [2].

È una concezione terribilmente vincolante, quella della Terra, per l’antica civiltà italica e romana: a essa si legherà lo stesso patto con gli Dei e il conseguente Diritto Sacro [3].

«Ancorato alla Terra e all’individuazione delle divinità che l’abitavano, l’antico Romano mirava a dare una base di certezza alla divinatio che interpretava i fenomeni della Terra-Tellus, meno affidandosi al “furore profetico” proprio della mantica greca della quale il termine latino, come precisa Cicerone nel De Divinatione (i 1), era la traduzione. Le stesse operazioni agrarie, con il lungo elenco dei lavori necessari, specificatamente denominati, erano ritenute sacre, elevate al rango di divinità sia pure minori (indigetes). Gli antichi Romani sentirono il loro sistema religioso non solo come venerando, ma anche come razionale, confermato, nella sua validità, dai successi della città di Roma alla conquista del mondo. Continui erano i signa di Tellus, e quindi delle divinità che andavano sempre scrupolosamente interpellate, con rigorosi, ancestrali riti. Una persistente cura rituale investiva la vita pubblica di Roma antica. La celebre affermazione di Polibio sulla straordinaria religiosità dei Romani appare pienamente giustificata» [4].

La natura entro i cui limiti si costituisce la comunità, identitariamente, è a fondamento del concetto stesso di ordine, quindi di Legge, così come i Romani definivano: un costrutto che nello stesso istante era limite, ingresso, uscita, dell’azione delle forze numinose legate alla salus populi. Per contro, l’allontanamento da tale Ordine segna la fine di ogni regola e di ogni contatto, spezzando il patto [5].

È a partire dal legame con la Terra dei Patres (da cui “patricius”) che si stabilisce l’ordine comunitario che diventerà ordine della Natio, quindi ordine dell’Imperium. Tale legame, esiste in ragione della fides prestata dalla Comunità al Genius Loci prima, quindi al genius Populi, indi alla Divinità – sive mas sive foemina – secondo il rito romano, che condurrà alla dignità dell’Imperium al fine di salvare la Res publica.

In questo legame con la Terra, vi è molto di più del binomio sangue e suolo, così fortemente identitario fra i popoli di più antica Tradizione e che, in ambito indoeuropeo vedrà la figura del Signore (Pater familias, Re, Console, Imperatore) diventare il ponte materiale col Cielo misterico: i pacta Deorum

In Giappone la Nazione si trasforma in Impero. Egualmente, a Roma, la Res publica assunse la dignità di Imperium.

L’IMPERIUM non aveva, in origine, il significato che oggi si attribuisce alla parola ‘impero’. Per i Romani era una dignità spirituale, poi civile e militare: il titolo di AUGUSTO, consacrato dagli àuguri.

Il dizionario etimologico, così spiega il titolo di “AUGUSTO”:

 

augusto-min

 

A colui che è proclamato e consacrato Augusto, spetta anche il titolo di Pontifex Maximus (e non poche volte, anche quello di Rex Sacrorum).

Il periodo cosiddetto “alto-imperiale” (27 aC - 305 dC) vede i discendenti di Augusto raggiungere il Potere fra il 14 aC e il 68 dC (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone). Quindi i Flavi e poi gli Antonini dal 96 al 193 dC (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo). I Severi (Settimio, Caracalla, Macrino, Eliogabalo e Alessandro), tennero l’impero dal 197 al 235 dC.

Per circa settanta anni, Roma divette difendersi continuamente dai barbari del nord e da quelli d’oriente. L’anarchia militare portò alla proclamazione di vari “imperatori-soldati” il cui fine era la lotta ai nemici dell’Impero. Nella crisi economica che seguì, l’invasione di nuovi culti orientali, come il cristianesimo, provocarono una acuizione delle difficoltà e una crisi religiosa. La perdita di identità del populus fu evidente… e la Dea Roma e il suo pontificato si ritirarono nelle navi arcane, nei delubri più profondi del Latus Vetus

A Diocleziano (Caio Aurelio Valerio Diocle) non rimase che dividere l’Impero (286) fra Augusti e Cesari, al fine di assicurarne un migliore controllo amministrativo. Affidò a Massimiano il controllo sulla parte Occidentale (contrastare le rivolte di Galli e Germani), il quale spostò la capitale da Roma a Milano, e dell’Africa nordoccidentale; Massimiano nominò quale Cesare Costanzo Cloro che fu prefetto delle Gallie, con capitale Treviri (sul Reno). Diocleziano tenne per sé la parte orientale (spostando la capitale a Nicomedia, con grave nocumento per Roma e l’intera Italia, e nominò Galerio come Cesare, affidandogli la prefettura dell’Illirico.

Quando con Costantino I il cristianesimo diventa politico e assume il potere, l’IMPERIUM che fu augusteo era virtualmente finito: il solo breve, troppo breve, periodo di Giuliano Flavio sembrò restituire la speranza di una resurrectio Romae, ma la sua morte in combattimento (Giuliano fu colpito da un legionario cristiano traditore), pose fine al progetto di restaurazione; con Teodosio I l’Impero è definitivamente cristiano e i pagani sono assassinati o incarcerati e privati delle loro sostanze. Suo consigliere è il vescovo Ambrogio di Milano, capo dei mercatores, proprietario di varie Terre a Treviri e in Africa settentrionale… Alla morte di Teodosio I, nel 395, l’Impero è diviso fra Arcadio (parte orientale) e Onorio (parte occidentale). Fu una divisione permanente e, nonostante i tentativi, le due metà non ritornarono mai all’unità. Distanti i due imperi, distanti le nazioni che li componevano: solo le schole sapienziali pensavano all’IMPERIUM come centro spirituale-politico unificante e armonico.

Noi affermiamo con forza che senza la Nazione non può esservi Impero, poiché Nazione e Impero, prima di essere concetti politici o geopolitici sono concezioni “superreligiose”, cioè di legame con le forze dell’Alto: il Fato numinoso affida la missione dell’Imperium che deve riprodurre fedelmente l’ordine cosmico: e sia detto una volta per tutte, solo la ROMA classica giulio-claudia potè, in tal senso, essere Impero. Per mandato divino [6].

E solo una filiazione romana, non presunta bensì concreta, può dar vita a un legato neoimperiale… Vi è mai stata tale filiazione, tale legato. Crediamo di sì: tornando a celarsi nei delubri arcani, la Dea Roma ha lanciato, con l’Arbor felix, i suoi semi, veicoli dell’Id-Ea.

In fondo, a Roma non furono assegnati confini e, come è noto, i semi attecchiscono ovunque vi siano condizioni perché possano germogliare.

Ora, se Roma riuscì a fare di genti diverse un solo popolo, ciò fu possibile perché gli elementi (le varie genti coi loro culti e le loro lingue) costituenti l’identità dei diversi popoli erano essenzialmente i medesimi. Il nome ITALIA, peraltro, è noto sin dal II secolo aC; dalla fine della guerra civile del 91- 88 aC Romani e Italici ebbero gli stessi diritti e furono una cosa sola. Quando, poi, con Augusto (si veda RES GESTAE) Iuravit tota Italia sponte sua, l’Italia fu NAZIONE ITALIANA…due millenni prima di quanto avvenne ad altri popoli al di là e al di qua dell’Atlantico. E fu l’Itala Nazione a essere al centro dell’Imperium e Roma quale centrum d’Italia.

Per tali motivi rifiutiamo la truffa del SRI della nazione tedesca, ente politico sovranazionale fondato (dapprima col solo sostantivo di Impero, poi aggiungendo l’aggettivo pretenzioso di romanum) dal barbaro franco Carlo, macellaio dei liberi Sassoni e cane da guardia del papato di Leone III (solo nel 1512, sotto l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, l’espressione “Sacro Romano Impero della Nazione Germanica”  - in tedesco Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation, in latino Sacrum Imperium Romanum Nationis Germanicae - già attestata fin dal 1417, fu usata in un atto del sovrano, il preambolo di commiato al Reichstag di Colonia. La titolatura dell’imperatore, in ogni caso, non cambiò, restando fino al 1806 Imperator Romanorum semper Augustus, senza riferimenti germanici. QUESTO IMPERO, in verità, fu e resta una colossale menzogna storica (nessun legato dalla Roma classica e pagana) dall’800 dC al 6 agosto 1806 (di seguito alle vittorie napoleoniche e alla pace di Pressburger cui segui l’abdicazione del sovrano austriaco).

E ci piace ricordare che la Russia degli Zar non riconobbe mai, nell’Austria, una qualunque forma di “eredità romana”. E come poteva? Avrebbe significato abbandonare il proprio diritto alla stessa eredità (questa sì, autentica).

Contro tutti i tentativi della Chiesa e dei sovrani suoi alleati di annullare l’Italia e Roma, Federico II di Svevia, ultimo Imperatore romano nel senso antichissimo pre-cristiano, rese omaggio al senato romano e riportò l’Italia al centro dell’Impero e Roma al centro dell’Italia: Qui, l’essenza della sua romanità classica. Affermando il principio che all’Imperatore soltanto compete la natura solare, dunque il primato nel governo delle genti, egli affermava – a un tempo – la potestà magica e sacrale dell’Imperator quale Pontifex, a fronte delle usurpazioni papiste. Alla sua corte, filosofi e letterati e scienziati (anche arabi) liberamente tenevano convivi e diffondevano Saperi.

Dunque, non l’avo Federico I “Barbarossa”, deve essere il riferimento tradizionale di chi auspica – anche attraverso la Terza Roma – una risorgenza della Prima Roma, bensì il nipote Federico II. Tanto il nonno ebbe in dispregio il Senato e il popolo di Roma, quanto il primo, nato in Italia, invece ne riconobbe pienamente le potestà di investitura e riconoscimento.

Amava, lo Stupor Mundi, parlare e scrivere in italiano e in latino e nacque e si diffuse la nostra lingua, primieramente alla Corte siciliana dell’ultimo Cesare romano. Si chiedano, certi tradizionalisti tifosi del Sillabo e della Chiesa cattolica apostolica “romana” (quanto abuso con questo attributo!), che confondono la prisca Roma con il c.d. Stato del Vaticano – uno Stato incarnato dalla figura papale – perché il peggior mondo germanico celebra, ancora oggi, il Barbarossa e non l’Italo nipote Federico II…

Jean Thiriart, nella sua visione paneuropea ed euro-russa/euroasiatica, si riferiva non solo al nazionalcomunismo di Stalin (maturato nel corso del II conflitto mondiale) ma anche alla figura romana ed europea di Federico II, non del Barbarossa [7].

Thiriart si faceva interprete di un nazionalismo federale, sostenitore dell’autarchia delle grandi aree, endosviluppo delle possibilità economiche regionali: «L’Europa come un grande ente geopolitico centralizzato, economicamente e ideologicamente indipendente» [8].

La NAZIONE mercantile cui fanno riferimento gli “imperiali” papisti e affini della loro Santa Alleanza (passata e presente), NON è LA NAZIONE sacralmente intesa, elemento centrale dell’Impero, Ente solare e armonizzatore delle realtà identitarie. L’IMPERIUM è come Forza attrattiva, orbita solare dei pianeti (le nazioni): l’Impero ordina e non dissolve le identità, ma tutte le contempla e rispetta e conduce. Non esiste una nazionalità senza nazione e quindi, sostenere – evolianamente – che l’Impero ammette le nazionalità e non le nazioni, è una leggerezza…se non pure una sciocchezza. Sostenere, poi, che l’Illuminismo (per quel che ci riguarda: quello italiano) e il Risorgimento siano “antitradizionali” è senz’altro una colossale sciocchezza, perché significa non avere letto – o non avere compreso – gli scritti di personalità come Gaetano Filangieri, Pimentel, Salfi, Pagano, Russo, Musolino, Mazzini, Bianco di Jorioz, Pisacane, Romagnosi, Garibaldi, Isidoro Bianchi, Vincenzo Cuoco (giusto con largo volo i primi che ricordiamo nel periodo 1798-1870): la sacralità, i richiami ai Misteri classici e pagani, alla costituzione spartana, alla religio egizia (un modo per dire “italica”) e romana arcaica, traspaiono in tutta evidenza persino nella necessità di costituire un nuovo modello sociale ben oltre quello assolutistico e clericale.

Almeno per l’Italia, l’Illuminismo e il Risorgimento si presentano non già come lo sviluppo alla Pace di Westfalia, bensì come una reazione a essa: laddove il Trattato che pose fine alla guerra dei Trent’anni (1618-1648) continuava nel relegare l’Italia alla sfera di influenza franco-ispanica-austriaca (più i possedimenti papali al centro della penisola), Illuminismo e Risorgimento ripresero la fiaccola dell’Umanesimo e del Rinascimento, del medioevo dantesco e dello Stupor Mundi, con il recupero delle memorie anticoromane, italiche e magnogreche, germi della futura unità nazionale. Nel segno di Roma, appunto, nel segno di Augusto…

Sostenere, dunque che la NAZIONE sia una struttura antitradizionale a prescindere (anche quando è fondata su altro da ciò che è la tirannocrazia teologizzante – quando cioè la NAZIONE fa propri i riti di più vetuste tradizioni legate al Genius Loci, all’etno-onomastica, alla stirpe e alla sua identità ancestrale) allora deve anche accettare di essere ACCOMUNATA PROPRIO A QUEI MERCANTI CHE SI PRETENDE DI COMBATTERE. Perché sullo stesso piano dei preti antinazionali di tutte le religioni ci stanno due forze (apparentemente antitetiche) quale CAPITALISMO (e Capitalismo globale in particolare) e COMUNISMO – regime (che per certi versi è da distinguere dal bolscevismo/modello – il soldato-contadino, il difensore della rivoluzione, per quanto desacralizzato):

«[…] il 23 giugno del 1972 nella tenuta dei Rockefeller nei pressi di Tarrington, New York. Presenti, fra gli altri, Bayless Manning, che era presidente del Council of Foreign Relations (CFR); Max Konstamm, già intimo collaboratore di Jean Monnet; Guido Colonna di Paliano, presidente della Rinascente ed ex membro della commissione CEE […], un ex ministro degli esteri giapponese, Kichi Miyazawa, fu decisa la nascita della famosa Commissione Trilaterale [9]. La prima riunione fu nel 1975, a porte chiuse, a Tokio. Quali sono state le opere della Trilaterale? Orbene, in questi ultimi trenta anni, di fatto la commissione Trilaterale ha tecnocraticamente – dice Dolcetta – gestito gli affari del mondo, costituendo un sistema tripolare per blocchi economici [...] dalla caduta di Gorbaciov i membri della Trilaterale di fatto hanno tenuto d’occhio i nazionalismi. Jean Poncet, della Bilderberg, ebbe a dichiarare che “il nazionalismo è un capitolo superato della storia europea”; Jean-Claude Casanova (Trilaterale) riconosceva che “IL SOLO SUCCESSO DEL COMUNISMO È STATO QUELLO DI CONTENERE IL NAZIONALISMO”, nel mentre Edmond De Rothschild… molto chiaramente affermava: “La struttura che deve essere distrutta è quella della nazione”».

Nelle parole dei Finanzieri e Banchieri, troviamo la conferma che il vero nemico da abbattere, per il capitalismo, è costituito da tutte le identità nazionali, concettualmente contrapposte al costrutto di Stato Multinazionale. Dunque, non il comunismo si contrappone al capitalismo (che, anzi, lo ha usato come “immagine leninista”, l’utile idiota cui è stata concessa la corda con la quale si è strangolato), bensì il nazionalismo identitario. Per Hedges: «Il capitalismo è stato presentato come un bene in sé. Non gli si chiedeva di essere socialmente responsabile. Qualunque ostacolo alla sua espansione – si trattasse di misure anti-trust, di azione sindacale o di regole di comportamento – veniva condannata come una porta aperta al socialismo» [10]. In conseguenza: «[…] Il “nazionalista” oggi si porrebbe al di fuori del mondialismo, al di fuori di ogni relazione ‘democratica’ e ‘pluralista’: ma per quanto noi ci sforziamo, davvero non riusciamo a capire perché ‘relazionarsi internazionalmente’ debba significare promiscuità globale, mundialismo informe, senza carattere distintivo, senza personalità» [11].

Le frontiere sono luoghi identitari, di conoscenza e di relazione: i confini sono, in una certa ottica, luoghi di ristretti accordi e limiti commerciali. La NAZIONE è delimitata dalle sue frontiere: l’Europa odierna è fatta di confini…che si aprono e si chiudono a seconda delle esigenze del Capitalismo globale (vedi Maastricht).

Il concetto di Impero, semmai, è diniegato non dalla NAZIONE ma – ancora una volta – dal potere Globale, tirannico, religioso, fideisticamente incrollabile nella propria missione, dello STATO degli STATI, il globalismo che ha negli USA la sua arma di aggressione e dissuasione, centro del potere mondiale unipolare (già noti tanto alla Geopolitica del primo ‘900 quanto a sociologi ed economisti: si vedano Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, di Weber, e Warum gibt es in den Vereinigten Staaten keinen Sozialismus? di Sombart). Sulla differenza fra frontiere e confini, ritorneremo.

Né l’Illuminismo, né il Risorgimento (e il concetto di Nazione) sono mai stati antitradizionali, almeno in Italia: semmai lo furono e lo sono certe tendenze assolutiste della teocrazia monoteista e certi ambienti “storici” di una destra e di una sinistra fautori dello stesso globalismo, che appaiono in sintonia col peggior capitalismo e col peggior comunismo. L’Impero in quanto tale (IMPERIUM) fu e resta soltanto quello romano-antico, perché voluto dal FATO che regge le sorti, perché i pegnora lo dimostrano, perché ancora oggi i popoli vivono ordinati grazie a norme fondate e date dal Diritto e dal Diritto Sacro romano: la distanza da queste norme ha creato le degenerazioni successive.

Tuttavia, la Roma di oggi, una sorta di mercato confuso come se ne vedono in Nordafrica o in Medioriente, NULLA ha da spartire con la nostra ROMA, se non i monumenti, MA PUR COSÌ OCCORRE AFFERMARE CON ALTRETTANTA FORZA CHE LA NOSTRA ROMA, NON È NEI SUOI MONUMENTI E NEI SUOI EDIFICI RESIDUI [12].

Essa è ora adelia, ma potrebbe rendersi visibile ancora, forse per vie precluse all’Occidente decaduto e degenerato, mentre il veicolo può essere nordorientale. La sostanza che muta è solo la sua forma materiale. E allora bisogna cogliere l’opportunità.

Va da sé, dunque, che noi partiamo dalla valutazione storica di una TRADIZIONE esistente e precedente ben prima l’imporsi politico del monoteismo cristiano. Il monoteismo di Ambrogio di Treviri, vescovo di Milano, e dei suoi mercatores, il monoteismo dei parabolani e di Cirillo di Alessandria, che assassinò ferocemente la scienziata neopitagorica e neoplatonica Ipazia (355-415), non può pretendere di dirsi romano e nemmeno di avocare a sé l’Imperium. L’unilateralismo assolutista nasce col monoteismo, quale che sia tale confessione… e ciò vale per:

• L’impero del male – atlantico/anglosassone e protestante – che fa e continua a fare delle nazioni le proprie domestiche e le proprie pattumiere, ove riversare i fallimenti propri;

• Ed è valso per l’impero del male comunista (il cui effettivo fondatore fu Stalin – non Lenin – ex seminarista) che fece delle nazioni una propria riserva dissolvendo le identità nazionali e imponendo i propri modelli (in ciò similmente all’impero del male atlantico/anglosassone). Salvo richiamarsi alle singole patrie nazionali, nel suo discorso a raccolta per contrastare l’avanzata militare tedesca nella II G.M.

In tutte le estensioni politiche dell’antichità, dall’Impero persiano al macedone, massimamente a Roma, le NAZIONI sono state armonizzate e non dissolte: al punto che furono ammessi entro queste entità “imperiali” i culti e gli Dei propri dei singoli popoli. Ma occorre comprendere e fissare che:

La Multipolarità che oggi dilaga come una pioggia benefica sulla terra desolata dalla unipolarità atlantista, riprende il concetto sacro di Impero proprio riscoprendo pariteticamente il concetto di NAZIONE e considerando valide identitariamente tutte le culture nazionali.

Non le nazioni sono l’ostacolo alla sacralità dell’Impero, bensì l’annullamento di esse tale e quale volle il comunismo e non vi riuscì, tale e quale ha voluto e vuole il Globalismo finanziario del Mercato Unico col suo braccio armato atlantista in Europa da Lisbona a Kiev, responsabile delle c.d. primavere arabe, di quanto accade sulle rive del Mediterraneo orientale, di quanto è accaduto e accade ancora in Siria e ovunque vi sia una NAZIONE libera che non ha intenzione di essere fagocitata dal Mercato Unico globalista. Il concetto di Nazione è spirituale, non liberista: la dimostrazione è il continuo tentativo di annullare le nazioni da parte del Capitalismo. La Nazione assume la negatività mercantilistica e globalista quando degenera in “società d’affari”, rinunciando al comunitarismo identitario per acquistare “fette di mercato”.

Oggi, esponenti di straordinaria elevatezza spirituale, tanto all’interno dell’Islam quanto all’interno del Cristianesimo ortodosso, nella loro visione multipolare del mondo ci indicano – in una trasposizione politica – l’operazione alchimica della sublimatio come operazione necessaria alla coesistenza plurima delle identità nazionali.

Per noi, la NAZIONE è un elemento concettuale assolutamente spirituale e, in quanto tale, totalmente altro dalle sue degenerazioni mercantilistiche impostesi dopo la pace di Westfalia. Degenerazione mercantilistica confermata a distanza di trecentocinquant’anni dai Trattati di Maastricht. L’attuale corso culturale e politico russo, rappresenta – al contrario della logica mercantilistica – l’occasione attesa.

 

Fine prima parte.

Continua…

 

Note

*Le note dell’autore, Dott. Prof. Claudio Pirillo, sono seguite dalla sigla [N.d.A.]; le note dell’editor, Diego Cinquegrana, sono seguite dalla sigla [N.d.C.]; ulteriori note di altri collaboratori sono seguite dal nome e cognome (o le iniziali) del collaboratore stesso.

[1] Claudio Pirillo, L’Eredità politico-spirituale di Roma: Il Risorgimento, I, Zedda Ed., 2010. [N.d.A.].

[2] Claudio Pirillo, Osservazioni sul concetto di Essere e Tempo…, Zedda Ed., 2009. [N.d.A.].

[3] Gerardo Bianco, Tellus. La sacralità della Terra nell’antica Roma, p. 11, Salerno Editrice, Roma 2019: «Per l’antico Romano la Terra-Tellus era la casa comune degli dèi, degli antenati e degli uomini. Per vivere insieme occorreva conquistare la “benevolenza” delle divinità e realizzare, quindi, la pax deorum. Ogni luogo, ogni tempo, ogni operazione, anche umana, era sotto il segno del divino che andava individuato e specificato attraverso un nomen che ne indicasse la vis, la potenza, appunto, delle divinità con le quali conciliarsi per poter agire e coabitare. Il culto dei morti, dei propri avi come divinità protettrici, i Lares, costituí un primo, sicuro fondamento di una religiosità tellurocentrica coerentemente concepita. Le originarie divinità romane sono quasi tutte terrestri e venivano individuate attraverso la natura e le funzioni ad esse attribuite. La denominazione ne rifletteva i caratteri. La concezione spaziale di Tellus, per esempio, si articola in due potenti divinità romane, Ianus e Terminus, che indicano, appunto, gli inizi e le fini di ogni cosa. La religione romana piú che degli omina, presagi del futuro, è una religione dei signa, manifestazioni delle divinità. Ciò conferiva alla religiosità romana una caratura fortemente realistica che, insieme alla flessibilità interpretativa, consentiva un costante adeguamento alle inevitabili trasformazioni storiche e politiche». [N.d.A.].    

[4] Idem, p.12. 

[5] Gerardo Bianco, cit., p.13: «La mentalità ordinatrice dell’antico Romano è essenzialmente geometrica; geometriche sono due sue massime divinità: Giano e Termine. Il mondo di Tellus ordinato dai nomina, cioè dalla forza delle parole, conferisce alla cultura di Roma antica una struttura di pensiero realistica, perché fondata sulla natura. Per Cicerone è, appunto, la natura che dà validità al diritto, alle leggi che regolano la vita della città. La ‘decostruzione’ del concetto di natura, in corso nel nostro tempo, cancella fondamentali principi di ogni ordinamento della vita umana che gli antichi Romani, con molta saggezza, avevano ben individuato in Ianus, la divinità degli inizi e in Terminus, la divinità dei confini, che mettono in guardia dalla presunzione dell’onnipotenza umana». [N.d.A.].

[6] Adriano V. Pirillo, Coscienza politica e giuridica a Roma e Atene, in “La Provincia KR” – settimanale, Crotone 2013: «Lo spirito romano e lo spirito greco hanno come categoria suprema, che dà consistenza al loro sistema morale e politico, la divinità della patria… Il pensiero greco precede, ma soprattutto eccede sulla vita e sul reale, dando luogo all’intellettualismo, con la Repubblica di Platone e con il cosmopolitismo delle scuole di fronte all’isolamento sterile ed improduttivo del saggio… Il prevalere della semplice erudizione fine a se stessa sulla speculazione, negli ultimi anni della decadenza, segna la fase conclusiva di un processo che aliena gradualmente gli interessi mentali dagli interessi vitali, sino a dare un eccessivo sapere al posto della funzione di una compiuta umanità. Ben diversa è la situazione a Roma: l’urbe è disposta piuttosto a rinunciare alle sublimi speculazioni che all’equilibrio perfetto della vita e del pensiero. A Roma il sentimento della patria è un tutt’uno con la coscienza civica e, mentre essa chiede ai suoi figli il soccorso delle armi e la saggezza politica, non concede loro l’otium della speculazione… presi come sono dal fine supremo di formare la repubblica reale e anziché propalare l’universalità dell’idea, tende a fondare l’universalità dello Stato… Perciò il cittadino romano è il pater familias che organizza il suo nucleo familiare in modo organico e compatto come una piccola comunità politica, è la madre che mostra e considera i suoi figli come gioielli, il guerriero che lascia bruciare la propria mano su un braciere ardente, il legato che per non mancare alla parola data al nemico si offre alla tortura, il condottiero che non dispera mai della forza della patria pur dopo sconfitte tremende, il dittatore che dopo aver riportato ordine e pace nello Stato lascia il potere e ritorna alla semplice ed umile vita dei campi… E come la più bella poesia latina nasce dalla gioia di una visione agreste e bucolica, così ogni conquista effettuata con le armi in pugno finisce per diventare una conquista del lavoro che il più delle volte viene affidata agli stessi soldati capaci di maneggiare altrettanto bene armi e vanghe […]. Le virtù del popolo romano dunque si devono considerare e definire solo insite negli esempi concreti, non fuori di essi; e tutte quante si possono riassumere nella Virtù per eccellenza, quella cioè che segna la completa dedizione del cittadino allo Stato, identificabile nella Fedeltà alle leggi in pace e nel valore militare in guerra… Roma è eterna finché l’universalità del suo sapere si è realizzata in una forma concreta di vita per i popoli, in una determinazione esatta dei limiti di libertà individuale in rapporto alla libertà degli altri, in quella che è il segno più civile della sua sostanza: il diritto. Col diritto essa ha potuto estendere un’unica disciplina a popoli diversi per lingua, razza, usi e costumi…partecipando a tanti popoli la sua vita. Il diritto inoltre,… ha stabilito la coincidenza tra il fare e il pensare,…costituisce …la caratteristica e la gloria dell’Urbe: e l’originalità di Roma sta nel fatto che esso diritto non fu opera di un individuo, re, filosofo, o conquistatore che fosse, ma creazione collettiva di un popolo che nella coerenza del suo genio stabilisce la coerenza di una legge molteplice e varia secondo i tempi e i luoghi e saldava in meravigliosa unità il contributo di re e consoli, di pretori e tribuni, il responso dei comizi e i consulti senatoriali e i rescripta imperiali. Come disse Catone il censore:’ [...]lo Stato nostro invece è opera non dell’ingegno di uno solo, ma di molti, non è formato nel corso di una vita sola ma attraverso più secoli e più generazioni.’ […] Mentre altri popoli, chiusi in se stessi, cercano tutti gli elementi che possono contrapporli e tenerli separati, lontani dagli altri – razza, territorio, culture, lingue- Roma invece adduce a motivi della sua singolarità proprio il carattere universale, la capacità o meglio la virtù di concentrarsi e approfondirsi man mano che si estende sino a divenire l’impero delle genti. È l’Urbe che si rende coincidente con l’Orbe; è la cittadinanza del vincitore data al vinto; è lo stato in cui vivono tanti popoli, lo stesso che ha però bisogno assoluto di quelle genti per vivere. Roma fu res gentium e res populi e, attraverso le più drammatiche vicende interne e almeno per nove secoli della sua storia, seppe mantenere quella forma di organizzazione politica per cui lo Stato è l’espressione dell’equilibrio organico delle classi, ricco di una volontà collettiva he esso rafforza disciplinandola e unificandola. Prima che venissero le popolazioni dell’Italia e del mondo a rafforzare quest’organicità dello stato romano, erano venuti i plebei a consociarsi col patriziato, ed era stata creata la repubblica contro la tirannide dell’ultimo monarca…, finché, nel genio militare e politico di Cesare ed Ottaviano, nacque l’impero per salvare la repubblica…: e nell’autorità dell’uomo in cui si incarna lo Stato, la repubblica trovò il difensore della giustizia e della pace contro le forze disgregatrici e le intemperanze di partiti sovvertitori. Quando con Diocleziano, l’imperatore diventerà dominus, e lo stato sarà foggiato sul tipo delle monarchie assolute orientali, la grande idea politica di Roma sarà perduta e verrà segnata la fine di Roma come realtà storica». Ciò che fu di Roma, fu dell’Europa, dunque. [N.d.A.].

[7] Dugina Aleksandrovna, D., Teoria Europa, p. 67, AGA Editrice, Milano 2024: «Jean Thiriart scrisse di sé: “Io, nazionalbolscevico europeo nella tradizione di Ernst Niekisch e ispirato all’esempio storico di Josif Stalin e Federico II di Hohenstaufen”». (nb: il grassetto è nostro). Nostra convinzione, in questo caso, è l’azzardo rappresentato dall’accostamento di Stalin allo Stupor mundi. A meno che, Thiriart, non intendesse porre due estremi… (però non congiungibili nemmeno all’orizzonte). Resta integralmente valido il riferimento alla visione imperiale del Secondo Staufen. [N.d.A.].

[8] Ibidem.

[9] Sulla Commissione Trilaterale, quanto riportato in Internet è estremamente indicativo di quanto gli apparati degli Stati e il Potere economico globale siano “una sola cosa”. L’Occidente, cosiddetto, che pervasivamente tenta di occidentalizzare l’intera “isola mondo”. [N.d.A.].

Storia

La Commissione Trilaterale venne fondata il 23 giugno 1973 per iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e di altri dirigenti e notabili, tra cui Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski. L’organizzazione fu fondata a motivo del declino, in quegli anni, dell’influenza del Council on Foreign Relations, un precedente gruppo di studio americano di politica estera, le cui posizioni sulla guerra del Vietnam erano divenute impopolari.

Composizione

I membri della commissione provengono dalle tre aree geopolitiche di Europa, Asia e Oceania e America settentrionale. Il numero dei membri provenienti da ognuna delle tre zone è tale che la rappresentanza di tali zone è, in proporzione, sempre la stessa. I membri che ottengono una posizione nel governo del loro paese lasciano la Commissione. Al 2012 il Nord-America è rappresentato da 120 membri (20 canadesi, 13 messicani e 87 statunitensi), l’Europa da 170 membri (di questi 20 sono tedeschi, 18 italiani, francesi e britannici, 12 spagnoli, mentre i restanti Stati hanno da 1 a 6 rappresentanti). L’area dell’Asia Pacifica è rappresentata da 117 membri: 75 giapponesi, 11 sudcoreani, 7 australiani e neozelandesi e 15 dai paesi ASEAN. Nel 2011 la Trilaterale ha ammesso alle proprie riunioni anche rappresentanti di Cina e India. La lista dei membri è pubblicata ogni anno.

Al 2018 è Presidente del gruppo italiano della Commissione Trilaterale la giornalista Monica Maggioni, il suo vice è Enrico Tommaso Cucchiani e il segretario è Paolo Magri. Altri membri attuali sono: Ornella Barra (Walgreens), Giampaolo Di Paola (ex Ministro della Difesa), Marta Dassù (ex Viceministro degli Esteri), Gioia Ghezzi (Ferrovie dello Stato), Maria Patrizia Grieco (Enel), Vittorio Grilli (J.P. Morgan), Yoram Gutgeld (commissario spending review), Enrico Letta (ex Premier), Giampiero Massolo (ex capo dei servizi segreti e ora Fincantieri), Carlo Messina (Intesa Sanpaolo), Maurizio Molinari (direttore de La Repubblica ed ex direttore de La Stampa), Andrea Moltrasio (UBI Banca), Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), Maurizio Sella (Banca Sella) e Marco Tronchetti Provera (Pirelli).

Direzione e organizzazione

La struttura direzionale riflette le tre aree geografiche da cui provengono i membri: un gruppo europeo (Unione europea), un gruppo nordamericano (Stati Uniti, Canada e Messico) e uno asiatico-pacifico (Giappone, Corea del Sud, ASEAN, Australia, Nuova Zelanda, Cina e India). Ogni gruppo ha una propria presidenza, il cui gabinetto è composto da un Presidente (Chairman), due Vice-Presidenti (Deputy Chairmen) e un Direttore generale (Director). La leadership è collegiale. Le tre Presidenze sono affiancate da un Comitato esecutivo (Executive Committee). Il compito dei presidenti e vice-presidenti è quello di selezionare gli argomenti da discutere nei meeting, di organizzarli, coordinarli e presiederli.

Attività

Essa ha l’obiettivo di promuovere una cooperazione più stretta tra l’Europa, il Giappone e il nord America. Tra gli scopi che la commissione si propone c’è quello di facilitare la cooperazione internazionale nella convinzione della crescente interdipendenza tra gli stati del mondo.

Cronologia dei presidenti

• Presidenti del gruppo europeo

Jean-Claude Trichet (2011-)

Mario Monti (2010-2011)

Peter Sutherland (2001-2010) Honorary European Chairman

Otto Graf Lambsdorff (1992-2001) Honorary European Chairman

Georges Berthoin (1976-92) Honorary European Chairman

Max Kohnstamm (1973-76) Founding European Chairman

• Presidenti del gruppo nordamericano

Joseph S. Nye, Jr. (2008-)

Thomas S. Foley (2001-2008)

Paul A. Volcker (1991-2001) Honorary North American Chairman

David Rockefeller (1977-91) Founder and Honorary North American Chairman

Gerard C. Smith (1973-77)

• Presidenti del gruppo asiatico-pacifico

Yasuchika Hasegawa (2015-)

Yōtarō Kobayashi (1997-2015)

Kiichi Miyazawa, Acting Chairman (1993-97)

Akio Morita (1992-93)

Isamu Yamashita (1985-92)

Takeshi Watanabe (1973-85)

Controversie

Lo scrittore francese Jacques Bordiot affermò, riguardo ai membri della commissione, che: «…il solo criterio che si esige per la loro ammissione, è che essi siano giudicati in grado di comprendere il grande disegno mondiale dell’organizzazione e di lavorare utilmente alla sua realizzazione e che il vero obiettivo della Trilaterale è di esercitare una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate, per portarle a sottomettersi alla loro strategia globale». (Présent, 28 e 29 gennaio 1985). Non sono però specificate le fonti su cui Bordiot avrebbe basato le sue opinioni. Secondo quanto riporta Noam Chomsky, l’amministrazione Carter fu fortemente influenzata da questo studio, e molti membri della Commissione Trilaterale vi trovarono successivamente ruoli di primo piano. In particolare, Chomsky cita “La crisi della democrazia”, uno studio commissionato dalla Trilaterale, quale esempio delle politiche oligarchiche e reazionarie sviluppate dal “vento liberista delle élite dello stato capitalista”.  Per altri la Trilaterale è semplicemente l’espressione di una classe privilegiata di tecnocrati: «La Cittadella Trilaterale è un luogo protetto dove la téchne è legge e dove sentinelle, dalle torri di guardia, vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggiore benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso». In Italia, tesi molto simili a quelle di Chomsky furono espresse dal programma televisivo d’inchiesta Report di Milena Gabanelli e da Paolo Barnard. [N.d.A.].

[10] Claudio Pirillo, Mutamenti socio-ambientali globali e interessi geopolitici. La funzione militare (La solitudine condivisa), Nuova Prhomos Ed., 2019. [N.d.A.].

[11] Ibidem.

[12] Mario Farneti, Occidente, Editrice Nord, Milano 2001, p. 39, pp. 179 e 262: «Pensa che la Roma antica non esista più, poiché è ridotta a poche rovine. Ma si sbaglia. Non sono i monumenti, i palazzi, gli stadi e i teatri che fanno una città, ma il suo spirito. È questo ciò che conta, e finché lo spirito sarà vivo, anche la città vivrà, oggi come ieri, sebbene sotto forme esteriori diverse. Quello che noi, Pontefici di Vesta, alimentiamo in questo tempio segreto è lo spirito immortale di Roma, che continuerà ad allignare in questi luoghi, vivificandoli, finché arderà il sacro fuoco…il fuoco di Vesta arde senza interruzione da quasi tre millenni e, dopo di noi, arderà ancora. Le Vergini Vestali, lo custodiscono ogni giorno ed ogni giorno alimentano le sue fiamme con il legno dell’arbor felix, così come prescritto dall’antico rituale. Noi esistiamo da molti saecula, prima ancora di Roma…Vi affannate a svelare il nome segreto di Roma senza neanche avere nozione di che cosa significhi la stessa parola Roma. Sappi che l’Impero, quello vero, non è mai morto, ma è esistito ed esiste da sempre sulla Terra, sebbene si sia manifestato una sola volta e per un breve periodo in Occidente…È un ideale di grandezza e di perfezione a cui tende il mondo intero e che si manifesterà in maniera definitiva quando e se gli uomini avranno la giusta consapevolezza, non solo attraverso la mente, ma soprattutto attraverso lo spirito». (v. a p. 39, in cui fa dire alla vergine Giulia Flaviana Morosini che dopo la morte di Flavio Claudio Giuliano nel 363: «i discendenti di Giuliano hanno conservato, attraverso i secoli, il culto segreto degli antichi numi tutelari di Roma…[...] Noi non combattiamo contro qualcosa, ma per qualcosa: per affermare l’idea di Roma, la grandezza dell’Impero…Noi…saremo sempre vincitori, anche se perderemo la vita, anche se le orde dei barbari ci travolgeranno. Perché l’Impero è eterno… sebbene non sempre si manifesti agli occhi della gente». (NB: il grassetto è nostro). [N.d.A.].

 

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